Matteo Renzi
ANSA/RICCARDO ANTIMIANI
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Crisi di Governo: se torna Renzi...

Far implodere il Pd, evitare il voto, tornare protagonista con la compagnia di amici e poteri. Ecco cosa c'è dietro il ritorno di Renzi

«Sei uno sciacallo, spero che un giorno ti vergognerai». «Volano avvoltoi di nuova generazione, avvoltoi persuasori». Cerimoniosi il giusto, Matteo Renzi e Beppe Grillo si immedesimano reciprocamente nei due animali più ripugnanti del pianeta per cominciare la loro avventura da semplici conoscenti su quell’arca di Noè che pretende di traghettare il Paese lontano da Matteo Salvini. Cinici grufolatori che fanno dell’opportunismo virtù, divoratori di cadaveri; il bestiario restituisce una sola certezza nella giungla italiana d’agosto, sintetizzata da una famosa filastrocca mussoliniana: «Sorge il sole/ canta il gallo/ Matteo Renzi/ risale a cavallo».

Il senatore semplice di Scandicci, come si definì in un attimo di distrazione del suo ego, ha abbandonato la vaschetta dei popcorn per tornare al centro della politica e ottenere tre obiettivi: impedire agli italiani di votare, favorire l’implosione del Pd e perpetuare per il suo giglio magico la legislatura. In questi giorni Renzi è ovunque. In conferenza stampa a esaltare il ribaltone mentre gli onorevoli dem si lacerano nell’incertezza; in televisione uno e trino come quando era premier, a dimostrazione che i media mainstream hanno un debole per lui e che la Rai è rimasta graniticamente di sinistra; sulla trincea di Facebook e Twitter a incenerire anche chi muove rispettose critiche.

La macchina del consenso si è rimessa in moto. Il primo a lanciare l’idea del grande abbraccio fu Dario Franceschini nella famosa intervista al Corriere della Sera («Noi e i Cinque Stelle abbiamo valori morali in comune, dobbiamo favorire l’incontro»), al resto ci pensa Renzi. Dalla rottamazione allo stile Scilipoti, responsabili si diventa. Così la sudditanza degli editorialisti dei grandi quotidiani è di nuovo da scendiletto, anche perché l’uomo è vendicativo e se non gli piace una frase ti inonda di WhatsApp al curaro. E poi se torna lui, non torna da solo.

Oltre a una granitica rappresentanza parlamentare che risponde a Renzi e non a Nicola Zingaretti (65 deputati e 40 senatori), già si stagliano all’orizzonte i fedelissimi, ovviamente mossi da profondo senso dello Stato. Luca Lotti, il gran cerimoniere che da sottosegretario allo Sport si occupava delle nomine delle procure, compresa quella che stava indagando su di lui. Maria Elena Boschi, ministra e attivista, simbolo di Bancopoli e della fine del regno, che si travestiva da elicotterista con la mimetica ben prima di Salvini e che i nuovi padroni del Pd non avrebbero mai più infilato in un collegio blindato sulle Dolomiti. Davide Faraone, ex segretario del Pd siciliano, pittoresco contrammiraglio di Carola Rackete a bordo della Sea Watch; il renzismo «stay human» passa da lui, non più dal muscolare Marco Minniti. Ivan Scalfarotto, così devoto all’ex sindaco di Firenze da andare a Regina Coeli a trovare i presunti assassini del carabiniere Mario Cerciello Rega senza aver concordato nulla con il partito.

Più che una lista è una collezione, una comédie humaine della quale non può non far parte il più balzachiano di tutti, quel Sandro Gozi che non potendo essere sottosegretario in Italia per mancanza di estimatori, è andato a svolgere il ruolo in Francia, ingaggiato da Emmanuel Macron. Gente speciale, gente da Leopolda. Il festival di Sanremo del renzismo, da dove il leader lancia progetti e provocazioni, era previsto a ottobre ma è stato precipitosamente anticipato a settembre e potrebbe coincidere con un momento chiave: il ritorno del capo sulla tolda del Pd sfilato da sotto il deretano a Zingaretti o l’annuncio del nuovo partito. Una Cosa riformista di centrosinistra, inventata con Carlo Calenda prima della litigata (l’ex ministro in Lacoste non regge il voltafaccia con Di Maio) e accreditata del 6 per cento dai sondaggi amici. Per ora c’è il nome, Azione civile, che evoca la passione più sfrenata dell’ex premier: querelare chi si azzarda a criticarlo.

Se torna lui, tornano anche gli amici di idea e di portafoglio. Come Goffredo Bettini, raffinato tessitore di tele di ragno, che ha lanciato l’amo ai grillini parlando per la prima volta di «governo di legislatura», vale a dire tre anni di poltrone e la possibilità di rieleggere Sergio Mattarella al Quirinale. Come Marco Carrai, il suo uomo ombra, testimone di nozze, proprietario che gli affittava gratis la casa, imprenditore esperto di cyber security con grande dimestichezza nel gestire i rapporti con il mondo finanziario e pure ecclesiastico. Il Gianni Letta di Renzi, noto per essere finito nel vortice di Banca Etruria (sua la mail di sollecito all’ad di Unicredit Federico Ghizzoni), in questi mesi ha un problema curioso. Deve convincere la moglie Francesca Campana Comparini a ritirare la causa nei confronti dell’amministrazione fiorentina guidata da Dario Nardella (altro fedelissimo, si profila un corto circuito) per via di un’attività commerciale contestata.

Se torna lui, torna il suo colonnello mediatico Mario Orfeo, che per la verità non è mai andato via. Ha ancora l’ufficio al settimo piano del quartier generale Rai e i suoi consigli sono molto ascoltati dal direttore del Tg1 del cambiamento (di canale) Giuseppe Carboni. Se torna lui, tornano i Nannicini boys, i cosiddetti campioni del Jobs Act, gli economisti col pallottoliere guidati dall’iperbocconiano Tommaso Nannicini. Laggiù in fondo si intuisce in avvicinamento anche la silhouette di Francesco Bonifazi, tesoriere del Pd renziano, soprannominato «Bonitaxi» perché faceva da autista a Renzi, indagato dalla procura di Roma nell’ambito dell’inchiesta sui finanziamenti illeciti alla politica di Luca Parnasi. È detentore di un piccolo record: nell’anno del referendum perduto riuscì a creare un buco di tre milioni nei bilanci del partito. I finanzieri bocconiani rampanti che fanno il girotondo attorno al Bullo sono tanti. Primo fra tutti Davide Serra, dominus della società Algebris, tornato a casa da Londra sfruttando la legge «Cristiano Ronaldo», varata da Paolo Gentiloni, che consente a chi trasferisce la residenza fiscale in Italia di pagare 100 mila euro di tasse in un’unica soluzione sui redditi prodotti all’estero per 15 anni. Un affarone. E scommettiamo che anche Oscar Farinetti, l’elettrico proprietario di Eataly e di quel flop a pedali che si chiama Fico (doveva essere la Disneyland del cibo), sta pensando di riprendere la strada di casa come Lassie?

Tutto dipende dalla gestione della crisi, dalla tenuta di Zingaretti e dall’equilibrismo di Mattarella che peraltro fu mandato al Colle proprio da Renzi. Il cammino dell’ex premier verso la partita di ritorno - lui la definisce remuntada alla spagnola - è cominciato quasi tre mesi fa all’Auditorium di Milano durante un bizzarro evento con Calenda chiamato pomposamente «Reunion» (neanche fossero i Pink Floyd). Allora, messo all’angolo dagli zingarettiani ma convinto che una svolta a sinistra del partito avrebbe portato al disastro, decise di battere su due chiodi fissi: i millennials e i comitati civici «Ritorno al futuro». I primi sono un suo vecchio pallino: ne aveva portati 20 in direzione nazionale; l’Huffington Post li definì «i millennials sotto steroidi». Renzi ci contava. Per poi vedere, con disgusto, prima Maurizio Martina e poi Zingaretti accantonare i suoi boys a favore dei vecchi burocrati da post-Bottegone. A queste iniziative periodiche delle truppe cammellate è sempre presente Roberto Pontecorvo, punto di riferimento della Fondazione Obama, con la quale Renzi dice di avvertire palpabili affinità. Oltre ai millennials sono tornati in funzione i comitati civici, un migliaio, coordinati da Ettore Rosato - detto Tafazzi per la riforma elettorale più autolesionistica del secolo - e dal solito Scalfarotto, pronti a organizzare inchieste sulle fake news (un’ossessione renziana a senso unico) e a raccogliere adepti.

Se torna lui, tornano anche i suoi vizietti. Autoreferenziale, prepotente con la stampa (Salvini a confronto è un’educanda) come quando fece cacciare da un albergo di Forte dei Marmi l’inviato del Corriere della Sera, Marco Galluzzo, reo di aver preso una stanza sotto lo stesso tetto. E se dovesse non tornare, come certi conti, qualcosa in autunno arriverebbe comunque a sintesi: le inchieste sulla sua famiglia e sul giglio magico. Sono previste udienze decisive e sentenze dei processi a babbo Tiziano (concorso in bancarotta, fatture false, caso Consip), mamma Laura (concorso in bancarotta e fatture false), Luca Lotti (favoreggiamento), Pierluigi Boschi (bancarotta colposa), e il possibile rinvio a giudizio di Francesco Bonifazi (finanziamento illecito).

Caratteriale, ducesco, Renzi è affetto dalla sindrome da arbitro di calcio: non ammette un errore neanche davanti al Var. Il suo ruggito agostano fa paura a molti, per fortuna non ai cittadini italiani che lo hanno inchiodato alla regola del 4: dopo il 4 dicembre 2016 (ko al referendum) è arrivato il 4 marzo 2018 (il suo Pd al minimo storico). Lui sa che le urne lo boccerebbero, quindi si impegna per allontanarle comandando. Se gli riesce il colpo raggiunge un primato da nota a piè di pagina in un manuale di Diritto Costituzionale: è l’unico politico al mondo ad andare al governo due volte da caudillo, con altrettante manovre di palazzo. La prima da segretario senza parlamentari (#enricostaisereno). La seconda con i parlamentari, ma senza essere segretario. Fino a un paio di settimane fa, in giro per l’Italia, le sue frasi scolpite nella pietra erano due: «Se il governo va a casa si vota, non esiste un piano B». E sui Cinque Stelle: «Sono antidemocratici che predicano la fine della democrazia rappresentativa e sono gestiti da una srl. Non trovo una ragione nell’universo per allearci». Se torna, tutto diventerà opinabile, liquido, azotato. Come quel gelato di Grom che gustò platealmente davanti a palazzo Chigi in maniche di camicia. Voleva dimostrare a Bruxelles quanto era invincibile, fece ridere mezza Europa. © riproduzione riservata

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Giorgio Gandola