I dubbi e le vergogne sulla querelle Bonafede-Di Matteo
(Ansa)
Politica

I dubbi e le vergogne sulla querelle Bonafede-Di Matteo

Troppe le domande serie e pesanti senza risposta in una storia che sarebbe costata la crisi per qualsiasi Governo di centrodestra e che oggi passa quasi sotto silenzio

Tanti dubbi, di certo qualche bugia e alcune omissioni, e tutt'intorno giornali e tv immersi un clima di fischiettante disattenzione, come se la querelle che ha opposto il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e il magistrato antimafia Nino Di Matteo fosse questione irrilevante. I fatti: domenica sera, a Non è l'Arena, trasmissione condotta da Massimo Giletti su La7, si parlava di carceri e mafiosi liberati, e dei disastri combinati negli ultimi mesi dal Dap, il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, affidato dal ministro al dimissionario Francesco Basentini.

A un certo punto, però, Di Matteo chiama in diretta e rivela una storia che, da sola, farebbe cadere qualsiasi governo di centrodestra. Il pm palermitano, che dal 2019 siede come membro togato nel Consiglio superiore della magistratura (per la corrente fondata da Pier Camillo Davigo), rivela che nel giugno 2018 Bonafede, appena insediatosi al ministero come ministro guardasigilli del primo governo Conte, l'aveva chiamato per proporgli di diventare "o il capo del Dap, o in alternativa il direttore generale degli Affari penali".

Di Matteo ricorda di aver chiesto 48 ore di tempo per rispondere. Poi sottolinea con forza un particolare di gravità assoluta: "Nel frattempo", dice, "e questo è molto importante che si sappia, alcune note informative redatte dal Gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria avevano descritto la reazione di importantissimi capi mafia all'indiscrezione che io potessi essere nominato a capo del Dap". Quelle reazioni, ovviamente, erano state più che negative.

"Trascorse le 48 ore, o forse già l'indomani" continua Di Matteo nella telefonata in diretta "io andai a trovare Bonafede perché avevo deciso di accettare la nomina al Dap. Il ministro, che pure fu molto cortese, mi disse però che ci aveva ripensato, che aveva pensato di nominare per quel posto Basentini, e mi chiese di accettare il ruolo di direttore generale degli Affari penali nel quale mi vedeva meglio". Il magistrato conclude: "Io rimasi colpito da quell'improvviso cambiamento di proposta. Il ministro ci aveva ripensato, o forse qualcuno l'aveva indotto a ripensarci; questo io non lo posso sapere. Il giorno dopo gli dissi di non contare su di me, perché non avrei accettato".

Una rivelazione sconvolgente e sconcertante, insomma: uno dei pubblici ministeri più vicini al Movimento 5 stelle, l'uomo che gli stessi Cinque stelle considerano un'icona dell'antimafia, ipotizza oggi a freddo che il ministro grillino della Giustizia due anni fa avesse subìto pressioni che l'avrebbero indotto a cambiare idea sulla sua nomina al Dap.

Sono affermazioni tanto gravi da indurre Bonafede a intervenire nella trasmissione, a sua volta in diretta. Il ministro si dice "esterrefatto" di quanto ha sentito, però conferma tutto il racconto di Di Matteo. Gli contesta solamente «l'idea che io, in virtù di chissà quale paura sopravvenuta, avrei ritrattato la mia proposta: è un'idea che non sta né in cielo né in terra». Così dice Bonafede, aggiungendo però una frase ambigua: «È una percezione, legittima, del dottor Di Matteo».

Il ministro conclude facendo leva soprattutto sulla proposta alternativa che due anni fa ha fatto a Di Matteo: "Gli dissi che tra i due ruoli per me era più importante quello di direttore degli Affari penali, più di frontiera nella lotta alla mafia, il ruolo ricoperto da Giovanni Falcone". Con queste parole, Bonafede cerca insomma di dimostrare di aver voluto a tutti i costi accanto a sé Di Matteo. È come se dicesse: io gli ho proposto il massimo tra quel che avevo a disposizione, ma alla fine è stato lui a non accettare.

Questo, però, non corrisponde al vero. Perché nel giugno 2018, quando Bonafede s'è appena insediato, la direzione degli Affari penali del ministero della giustizia che nel maggio 1991 il ministro Claudio Martelli aveva affidato a Falcone in quanto «cabina di regia» del ministero, non esiste più. Meglio: non è più quella da quasi vent'anni, è stata depotenziata e ridimensionata. Dal 1999, cioè dalla riforma della Pubblica amministrazione di Franco Bassanini, il ministero della Giustizia si regge su quattro Dipartimenti che sotto di sé hanno varie direzioni generali: questi sono uffici secondari, burocratici. E la direzione generale degli Affari penali che Bonafede vorrebbe dare a Di Matteo è proprio uno di questi uffici.

Quindi, se è plausibile che l'importante guida del Dap venga offerta a un magistrato della caratura di Di Matteo, l'altra proposta - quella della direzione degli Affari penali - è inverosimile. E è appena ammissibile che Bonafede potesse ignorarlo nelle sue prime settimane al ministero, due anni fa. Ma è del tutto impossibile che il ministro grillino possa continuare a non saperlo oggi: è anzi letteralmente incredibile che il ministro continui a fare confusione tra un suo capo Dipartimento e un direttore generale. Deve sapere per forza quanto sono diversi quei due ruoli: il primo, per esempio, parla direttamente con il ministro, mentre il secondo no; il primo ha uno stipendio di 320.000 euro, il secondo ne guadagna 180.000.

Sull'importanza della direzione generale offerta a Di Matteo, quindi, Bonafede non dice il vero. Ma c'è di peggio: perché nel giugno 2018 la direzione generale degli Affari penali ha già un titolare, e quindi Bonafede non può nemmeno offrirla a Di Matteo. Tre mesi prima, infatti, e per l'esattezza il 21 marzo 2018, il suo predecessore Andrea Orlando l'ha affidata a un serio magistrato, Donatella Donati: e dato che si tratta di una nomina triennale, costei è ancora in quel ponto, tecnicamente inamovibile fino al marzo 2021.

C'è chi tenta oggi di censurare la gravissima querelle tra Di Matteo e Bonafede (il Tg1 non ne ha nemmeno fatto cenno) o di derubricarla a banale "equivoco" tra i due. L'ha scritto ieri, per esempio, il Fatto quotidiano, negli ultimi mesi divenuto particolarmente filo-governativo e filo-grillino. Il suo direttore Marco Travaglio, di solito accurato e documentato, nell'editoriale di ieri ha scritto: "Bonafede chiama Di Matteo per proporgli l'equivalente della direzione affari penali (che già era stata di Falcone) o il Dap". E continua a difendere a spada tratta Bonafede, aggiungendo che "chi vuole compiacere i boss non offre a Di Matteo il posto di Falcone, ucciso proprio per il ruolo di suggeritore di Claudio Martelli agli Affari penali, non al Dap".

Ma questo non corrisponde al vero, come abbiamo visto. E anzi accende il neon di un altro punto interrogativo sul comportamento del ministro nel giugno 2018. Perché in quel momento Bonafede avrebbe la possibilità di offrire a Di Matteo, in alternativa alla guida del Dap, una poltrona davvero importante, un ruolo che assomiglia molto da vicino a quello affidato nel 1991 a Falcone: è il posto di capo del Dag, il Dipartimento affari di giustizia. A metà del giugno 2018, quando il ministro parla e s'incontra con il magistrato antimafia, il responsabile del Dag è ancora da nominare. Bonafede lo sceglierà soltanto il 27 di quel mese. Non sarà Di Matteo, ma Giuseppe Corasaniti, procuratore aggiunto della Cassazione.

Certo, sulla questione restano irrisolti molti altri dubbi. Possibile che i grillini accettino senza problemi che un'ombra così grave oscuri il loro ministro della Giustizia? E com'è possibile che il presidente della Repubblica non abbia almeno chiesto chiarimenti? Va ricordato, in proposito, che Sergio Mattarella è presidente del Csm, di cui Di Matteo fa parte: è possibile che il Consiglio non abbia sentito la necessità di fare chiarezza su un tema così importante?

Ma le domande riguardano anche Di Matteo: perché parla soltanto oggi, a quasi due anni dalla vicenda? Lo fa perché, come ha scritto qualcuno, oggi avrebbe voluto essere chiamato per il posto di capo del Dap, lasciato libero dal dimissionario Basentini? E ancora, visto che Di Matteo è uno dei pubblici ministeri del controverso procedimento palermitano sulla presunta "Trattativa" fra Stato e Cosa nostra, partita proprio sulla gestione dei capi di Cosa nostra in carcere, e visto che in qualche misura insinua che il ministro della Giustizia abbia assoggettato le sue scelte a quel che accadeva in prigione, tra i boss mafiosi, perché in questi due anni non ha adottato alcuna iniziativa?

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Maurizio Tortorella

Maurizio Tortorella è vicedirettore del settimanale Panorama. Da inviato speciale, a partire dai primi anni Novanta ha seguito tutte le grandi inchieste di Mani pulite e i principali processi che ne sono derivati. Ha iniziato nel 1981 al Sole 24 Ore. È stato anche caporedattore centrale del settimanale Mondo Economico e del mensile Fortune Italia, nonché condirettore del settimanale Panorama Economy. Ha pubblicato L’ultimo dei Gucci, con Angelo Pergolini (Marco Tropea Editore, 1997, Mondadori, 2005), Rapita dalla Giustizia, con Angela Lucanto e Caterina Guarneri (Rizzoli, 2009), e La Gogna: come i processi mediatici hanno ucciso il garantismo in Italia (Boroli editore, 2011). Il suo accounto twitter è @mautortorella

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