1919, cent'anni fa nasceva il Nazismo
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1919, cent'anni fa nasceva il Nazismo

In una Germania prostrata dalla sconfitta nella prima Guerra Mondiale nasceva il partito che predicava la riscossa nazionalista

Nel marasma provocato dalla fine del Primo confitto mondiale che aveva lasciato sul campo decine di milioni di morti e almeno cento di milioni di affamati, in una Monaco di Baviera devastata dalla miseria nacque il «partito tedesco dei lavoratori» (Deutsche Arbeiterpartei). Era il gennaio 1919 anche se quella è la data di registrazione burocratica. Per presentare il nuovo raggruppamento furono necessari altri sei mesi: 12 luglio. I soci fondatori fecero leva sul sentimento nazionalista: se la Germania era accerchiata da politiche che miravano a strangolarla, occorreva reagire, facendo leva sull’orgoglio dei cittadini per costruire le occasioni di rivincita. Progetto ambizioso e, a quel momento, velleitario.

A distanze di un secolo, il Partito dei lavoratori sarebbe inghiottito in una piega della storia se, fra gli aderenti, non fosse spuntato Adolf Hitler che, di quelle istanze, s’impadronì, le trasformò e, con le opportune modifiche, le catapultò nel Secondo conflitto mondiale.

Ad avviare quel movimento provvide Anton Drexler, metalmeccanico, a Berlino, in una fabbrica di locomotive e poi fabbro, a Monaco, nell’azienda statale delle ferrovie tedesche. Alla vigilia della Prima guerra mondiale fu esonerato dal servizio militare ma partecipò alla «costruzione della coscienza bellica» sostenendo i movimenti interventisti. Gli orrori della guerra non gli fecero cambiare idea. Continuò a ritenere che la Germania dovesse riprendersi il posto perduto. E, poiché le sconfitte vanno sempre attribuite a qualcun altro, individuò nei banchieri, negli ebrei e nei comunisti i responsabili del complotto che aveva fatto sprofondare il suo Paese. Con lui il giornalista Karl Harren e gli attivisti di ispirazione socialista Gottfried Feder e Dietrich Eckart.

Le forze armate tedesche, alle prese con la difficile transizione dopo la sconfitta nella recente guerra, temettero che quel piccolo partito potesse diventare un pericolo. Le tesi oltranziste sollecitavano i sentimenti più autentici della gente e li spingevano a desiderare la rivincita. Pericoloso per uno Stato ancora troppo traballante cui serviva un periodo di tranquillità per rimettersi in piedi.

Gli ufficiali incaricarono un loro caporale - Adolf Hitler - di infiltrarsi fra gli iscritti, indagare segretamente e riferire. Esito scoraggiante (per lo Stato maggiore). Perché Hitler, altro che sorvegliare, rimase affascinato dalle idee di quel nuovo partito, intervenne nel corso dell’assemblea e gli iscritti rimasero, a loro volta, sedotti dalla capacità oratorie di quel piccolo uomo.

Il feeling portò Hitler a iscriversi con tessera «numero 55». Drexler lo inserì subito nel comitato direttivo del partito assegnandogli le deleghe per la propaganda. Gli bastarono pochi mesi per impadronirsi dell’intero movimento diventandone il punto di riferimento.

Modificò il nome in «Nationalsozialische Deutsche Areitpartei», partito tedesco nazionalsocialista dei lavoratori. E, quando si accorse che era troppo lungo, abbreviò in «nazionalsocialismo».

Drexler fu emarginato e finì per accontentarsi della carica di presidente «onorario», senza poteri reali e nessun incarico di rappresentanza. Periodicamente lo esibirono, ma solo come strumento di propaganda. Nel 1934 gli conferirono una medaglia d’oro, ma già nel 1937 era del tutto dimenticato (fino al 1942, anno della morte, quando il nazionalsocialismo sembrava ancora padrone del mondo).

Per Hitler, invece, quel partito (al momento minuscolo) rappresentò un trampolino di lancio per dare l’assalto alla Cancelleria della Germania.

Le idee originarie del partito e le sue si trovavano sulla stessa lunghezza d’onda. Occorreva boicottare il trattato di pace firmato a Versailles che rappresentava un autentico accanimento contro la Germania. I redditi andavano redistribuiti e gli operai avrebbero dovuto partecipare agli utili delle grandi aziende. Bisognava nazionalizzare quelle strategiche, aumentare le pensioni, assicurare dei privilegi ai tedeschi e negarli agli altri. Agli ebrei doveva essere negata la cittadinanza.

Stupisce che questo programma si scontrasse con la stessa biografia del suo leader.

Questo campione della leadership tedesca era, in realtà, austriaco. Nacque il sabato di Pasqua del 1889, a Braunau, in un palazzotto di tre piani che ospitava la Locanda del Pomerano, gli uffici della dogana e qualche stanzetta per abitazioni civili. A dispetto del suo antisemitismo esasperato e del culto della razza pura, qualcuno sostenne che le sue origini furono ebraiche o, nella migliore delle ipotesi, slave.

Per questo, Hitler vivente, vennero accuratamente nascosti i dettagli della sua infanzia. Che non dovette essere facile.

Il padre si chiamava Alois ed era un impiegato dello Stato, anche se le sue preferenze, più che al lavoro, andarono al vino e alle ragazze della città. Si sposò tre volte. Ebbe un figlio e una figlia dal secondo matrimonio. Adolf gli nacque dalla terza moglie. In casa, effetto di troppi bicchieri tracannati all’osteria, furono calci nel sedere, a ripetizione, per un minimo ritardo nell’ubbidire ai suoi ordini.

Il giovane Hitler studiò a Linz dove la famiglia si trasferì. Tentò di entrare nell’Accademia delle belle arti di Vienna, ma la sua prova di ammissione fu considerata insufficiente.

Campò di espedienti. I suoi coetanei raccontarono che dormì negli ostelli pubblici, ottenne qualche spicciolo disegnando cartelloni pubblicitari e si adattò a eseguire consegne da fattorino. Anche qui, corsi e ricorsi storici, per contrappasso, gli unici che lo aiutarono a non morire di fame furono due famiglie di ebrei e Reinhold Hanisch che era ceco d’origine.

Allo scoppio della Prima guerra mondiale, lui, austriaco, chiese di essere arruolato volontario nell’esercito tedesco dove la guerra la fece per davvero e con un’abnegazione non abituale. Non ritirò le sigarette e la razione di vino, non chiese licenze, non si lamentò dei pidocchi e accettò le sofferenze della prima linea, affondato nel fango della trincea.

Proprio la sconfitta della Germania e le condizioni di pace vessatorie che vennero imposte provocarono una crisi economica di proporzioni bibliche e, per conseguenza, montò un’incontrollabile voglia di rivincita.

All’orgoglio ferito della sua gente, Hitler offrì una cornice ideologica, capace di rispondere alle esigenze nazionaliste.

Non semplicissima la sua scalata al potere. Con un manipolo di congiurati, tentò un putsch nel 1923 che fallì e lui finì in carcere a scontare una condanna di otto mesi. Ma poi, nel 1933, conquistò la cancelleria e lo fece rispettando le regole della democrazia, prendendo più voti degli avversari.

Già i contemporanei si meravigliarono del successo politico di Adolf Hitler e, per la verità, nemmeno gli studi successivi riuscirono a spiegare il suo fascino trascinante.

Piccolo, minuto, nervoso, vittima di potenti mal di testa e di proverbiali arrabbiature. Non esibiva il fisico del dittatore e, a guardarlo con qualche attenzione, non lo si sarebbe detto in grado di dirigere alcunché.

Solo il timbro della voce e la sua capacità di arringare la folla apparvero fuori dall’ordinario. Le sue parole risultarono, contemporaneamente, suadenti e risolute, affascinanti e ultimative.

Davanti a una piazza gremita, non incontrò rivali. Riusciva ad assecondare i desideri della folla, la agitava, trascinandola per costruzioni retoriche fantastiche. Talora si mostrò accondiscendente ma, a seconda delle condizioni, fu in grado di provocare indignazione, eccitare, convincere, entusiasmare. Come nemmeno un incantatore di serpenti.

Ma, alla fine, si trovò da solo, nel bunker della Cancelleria: lui, Eva Braun e il cane pastore tedesco Blondie che gli rimase fedele. Gli altri si limitarono ad assecondare le sue ultime volontà cioè bruciarne il cadavere perché, al nemico, non volle concedere nemmeno le spoglie. © riproduzione riservata

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Lorenzo Del Boca