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Le 13 trappole sulla strada di Renzi

Molti ostacoli se li è cercati, ma adesso che la luna di miele è tramontata, sotto i suoi piedi si aprono botole in rapida sequenza

1 La trojka
Gira nell’aria da quando Mario Draghi ha detto che occorre cedere ancora sovranità. Jiri Katainen, il commissario finlandese più falco che gufo, sostiene che Bruxelles metterà l’Italia sotto sorveglianza. Renzi ribatte: «Ce la facciamo da soli». Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan giura che rispetterà il deficit al 3 per cento. Come non si sa. Il prodotto lordo continua a scendere e, secondo l’Ocse, l’anno si chiuderà a meno 0,4 per cento; altro che il più 0,5 previsto dal governo. Il deficit è già superiore al 2,6 e il debito continua a crescere. Bisogna rifinanziare gli 80 euro, mentre il capo del governo promette altri sgravi per imprese e artigiani. Certo è che il disavanzo strutturale non verrà ridotto di mezzo punto come voleva Bruxelles. La trojka (la Ue, la Bce e il Fondo monetario) è pronta a inviare i suoi emissari: si chiamerà diplomaticamente «monitoraggio stretto», sia sul bilancio pubblico sia sulle riforme. Mentre dai mercati si levano in volo tanti uccelli del malaugurio. Standard & Poor’s fa l’autocritica perché ha sovrastimato l’impatto delle misure renziane e prevede crescita zero. Philipp Hildebrand, numero due di BlackRock, il fondo d’investimento che possiede pacchetti in quasi tutte le grandi imprese e banche, considera l’Italia «malata cronica» d’Europa.

2 La spesa
La fine della spending review fa mancare un impegno chiave assunto con la Ue: 17 dei 20 miliardi di tagli finora previsti per l’anno prossimo dovevano venire dalle forbici di Carlo Cottarelli. Il super-commissario se ne torna a Washington e non verrà sostituito. I suoi 33 dossier finiranno a Palazzo Chigi, nei cassetti di Yoram Gutgeld, primo consigliere economico del principe. In realtà, fin dall’inizio a Renzi non piaceva né l’uomo che viene dall’altro mondo né l’impostazione tecnocratica voluta da Enrico Letta. La politica per lui resta al primo posto e il bilancio dello Stato è lo strumento principale per tenere sulla corda i ministri, i centri di potere intermedi e quelli locali che stanno mostrando tutto il loro potere d’interdizione.

3 La sanità
Il capo del governo ha affidato i risparmi ai ministeri, ponendo un tetto uguale per tutti: un taglio annuo del 3 per cento. Non frutterà molto, tra 2 e 3 miliardi appena, anche perché non c’è ministro che non difenda il proprio orticello. I tuoni più fragorosi vengono dalla Sanità. La titolare Beatrice Lorenzin alza lo scudo: «Non taglierò più di 40 milioni» su una spesa totale di 111 miliardi. È vero, la maggior parte dipende dalle regioni e dai governatori arriva una fiera resistenza. Luca Zaia, presidente del Veneto, minaccia lo sciopero fiscale e Roberto Maroni è pronto a seguirlo anche in Lombardia. «La mannaia finora è caduta su chi ha razionalizzato» polemizza Zaia, che invia a Renzi una serie di tabelle secondo le quali se tutti applicassero i costi standard, i risparmi sarebbero assicurati senza toccare le prestazioni.

4  Le regioni
Il malessere è davvero trasversale. Sergio Chiamparino parla di «un patto d’onore siglato ad agosto con il governo». Il toscano Enrico Rossi minaccia «una rivolta», il laziale Nicola Zingaretti rilancia: «Tocchino piuttosto le pensioni d’oro». Sono tutti di sinistra, anche se sembrano leghisti. È l’anteprima di uno psicodramma antico che si ripete ogni autunno con l’arrivo della Legge finanziaria, ma questa volta i margini di trattativa sono al lumicino.  

5 I comuni
Arriva un altro esponente di punta del Partito democratico a mettere i bastoni tra le ruote: si tratta di Piero Fassino, sindaco di Torino, e presidente dell’Associazione dei comuni. D’accordo con il ministro degli Interni Angelino Alfano, ha rinviato a gennaio la revisione dei criteri di spesa. Il contenzioso è vasto, va dalle multe alla Tasi, la nuova imposta locale sulle case, i rifiuti e i servizi. Con punte scandalose come il bilancio di Roma regolarmente ripianato a piè di lista. Chiamparino paladino delle regioni, Fassino dei comuni, le contraddizioni interne al Pd diventano macigni per l’azione di governo.

6Le province
No, non è un refuso, le province sono sempre lì. Con due mesi di ritardo venerdì 12 settembre è stato dato il via libera all’accordo per trasferire compiti e servizi. Scadenza 31 dicembre. Entro due settimane dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale i presidenti dovranno fornire una mappa precisa. L’osservatorio regionale sulla riforma avrà altri 15 giorni per esaminarla, poi comincerà il passaggio alle regioni e alle aree metropolitane. Ciò non riguarda, però, il personale per il quale ci vorrà l’accordo preventivo dei sindacati che a questo punto fanno il viso dell’arme su tutto.

7 Il Jobs Act
Il governo intende aggirare l’articolo 18 ottenendo una delega dal Parlamento, altrimenti potrebbe ricorrere a un decreto. Renzi vorrebbe passare dall’obbligo del reintegro per i lavoratori licenziati senza giusta causa all’indennizzo, come succede in Germania. Cesare Damiano, ex sindacalista della Cgil, ex ministro del Lavoro e attuale presidente della commissione di Montecitorio, lo blocca e rifiuta qualsiasi «delega in bianco». La Cgil e la sinistra Pd non hanno ancora digerito la flessibilità parziale introdotta due anni fa durante il governo Monti, e puntano i piedi. Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti fa l’elastico. Così, la danza di guerra attorno al totem blocca la riforma.

8 La giustizia
Non ci sono solo le trappole economiche. Ogni proposta scatena resistenze preventive. I magistrati difendono i loro 45 giorni di ferie, non per corporativismo, naturalmente, ma per una questione di principio: l’indipendenza del potere giudiziario, nel solco di Montesquieu. Il partito dei giudici schiera i pezzi da novanta sui giornali e in Parlamento. Il governo si spaventa. «Non è vero» reagisce il ministro Andrea Orlando, ma si dice disponibile a «rimodulare» la riforma.
9 La sicurezza
Un passo avanti e due indietro come con poliziotti e carabinieri. Agli agenti è bastato l’annuncio dalla gentile voce di Marianna Madia: «Non ci sono i soldi» ha detto il ministro della Funzione pubblica ed è scoppiata la rivolta. Il sindacato di polizia ha minacciato lo sciopero, contagiando persino i carabinieri. Il ministro Alfano ha dato loro torto nella forma, ma ragione nella sostanza. Dunque, qualche euro dovrà venir fuori. Quanto al nocciolo della riforma, la riduzione del pletorico numero di corpi, di comandi e di stellette, se ne parla da decenni e se ne discuterà ancora a lungo.

10 Gli esteri
Il marò Massimiliano Latorre è tornato in Puglia per curarsi, ma resterà solo 4 mesi e ha dovuto firmare un umiliante impegno scritto perché alle autorità indiane non basta la parola. Il dramma giudiziario dei due militari passa al prossimo ministro degli Esteri. Intanto, tra le armi ai curdi, l’intervento contro i tagliagole del califfato, il caos in Libia, il sostegno all’Ucraina rompendo i legami con zar Putin, la poltrona della Farnesina s’è fatta bollente.

11 La difesa
Anche il ministro Roberta Pinotti sta sulla graticola: da una parte la pressione della Nato per aumentare le spese militari (in teoria dovrebbero più che raddoppiare salendo al 2 per cento del Pil, cioè a 30 miliardi di euro) dall’altra la campagna contro gli F35 che vede in campo intellettuali, attrici, scrittori, ballerine, per non parlare del Movimento 5 stelle. Mentre cinque italiani rischiano la vita in mano ai terroristi islamici e la Pinotti deve difendersi dalle accuse americane contro chi paga il riscatto.

12 L’Emilia
Sembra uno scandalo di provincia, per cene e spese pazze, un’altra inchiesta partita due anni fa da una denuncia grillina e venuta alla luce alla vigilia delle primarie per scegliere il candidato governatore dell’Emilia-Romagna. «Avvisi di garanzia citofonati» ha detto Renzi a Montecitorio. Del resto, vengono colpiti due suoi seguaci: Matteo Richetti e Stefano Bonaccini. Il primo affonda, l’altro resta a galla, ma finisce in ospedale per stress.

13 Il rimpasto
Il premier ha bisogno di una ripartenza rinfrescando un governo debole e incerto. Bisogna sostituire Federica Mogherini e l’occasione è ghiotta. Non basterà spostare Alfano agli Esteri e piazzare agli Interni Graziano Delrio, fedele e capace, ma non è diventato il nuovo Gianni Letta. Il vero punto critico, infatti, riguarda l’Economia. Renzi non voleva Padoan e tra i due non c’è sintonia. Molti vedono il ministro in uscita dopo la finanziaria. Una mossa rischiosa perché, senza un sostituto davvero più forte, che non appare all’orizzonte, da Bruxelles a Francoforte, passando per la City, diranno che si tratta di una resa.   n © riproduzione riservata

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Stefano Cingolani

Stefano Cingolani, nasce l'8/12/1949 a Recanati e il borgo selvaggio lo segna per il resto della vita. Emigra a Roma dove studia filosofia ed economia, finendo a fare il giornalista. Esordisce nella stampa comunista, un lungo periodo all'Unità, poi entra nella stampa dei padroni. Al Mondo e al Corriere della Sera per sedici lunghi anni: Milano, New York, capo redattore esteri, corrispondente a Parigi dove fa in tempo a celebrare le magnifiche sorti e progressive dell'anno Duemila.

Con il passaggio del secolo, avendo già cambiato moglie, non gli resta che cambiare lavoro. Si lancia così in avventure senza rete; l'ultima delle quali al Riformista. Collabora regolarmente a Panorama, poi arriva Giuliano Ferrara e comincia la quarta vita professionale con il Foglio. A parte il lavoro, c'è la scrittura. Così, aggiunge ai primi due libri pubblicati ("Le grandi famiglie del capitalismo italiano", nel 1991 e "Guerre di mercato" nel 2001 sempre con Laterza) anche "Bolle, balle e sfere di cristallo" (Bompiani, 2011). Mentre si consuma per un volumetto sulla Fiat (poteva mancare?), arrivano Facebook, @scingolo su Twitter, il blog www.cingolo.it dove ospita opinioni fresche, articoli conservati, analisi ponderate e studi laboriosi, foto, grafici, piaceri e dispiaceri. E non è finita qui.

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