Perché non convince il rapporto di Vodafone
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Perché non convince il rapporto di Vodafone

La compagnia ha messo in luce quei meccanismi del sistema di sorveglianza che mettono a rischio la privacy dei cittadini. Ma qualcosa non torna

Per Lookout news 

Basteranno i primi cinguettii della CIA su Twitter e il recente rapporto di Vodafone sui milioni di conversazioni telefoniche consegnate ai governi di mezzo mondo a insaputa dei clienti per convincere l’opinione pubblica della trasparenza del modus operandi dei servizi di intelligence? La risposta è no, e nessuno francamente si aspettava qualcosa di più da queste prime timide aperture. Ciò che è innegabile, però, è che almeno sul piano mediatico qualcosa sta iniziando a smuoversi, quantomeno per provare a controbilanciare le frecciate lanciate a orologeria ora dall’ex agente del NSA (National Security Agency) Edward Snowden, ora dal guru di Wikileaks Julian Assange

L’esordio della CIA su Twitter sul piano della comunicazione non è stata una scelta del tutto infelice. Per ammorbidire le prevedibili critiche che sarebbero piovute di lì a poco dalle migliaia di follower pronte a seguire il profilo (in questo momento sono quasi 580mila), il direttore John Brennan ha optato per un approccio soft affidando all’ironia i primi 140 caratteri dell’agenzia americana: “Non possiamo né smentire né confermare che questo sia il nostro primo tweet”.

In attesa che il clima sui social network si surriscaldi (la CIA ha anche una sua pagina ufficiale su Facebook e account YouTube e Flickr), adesso è certamente più interessante valutare le prime reazioni innescate dal report postato da Vodafone sempre il 6 giugno (sarà una pura casualità?) sul proprio sito, anticipato nemmeno a dirlo dal quotidiano britannico “Guardian”, lo stesso giornale che ha fatto esplodere il Datagate.

Ma andiamo per ordine. Il 6 giugno il colosso inglese delle telecomunicazioni, il primo al mondo per fatturato, pubblica sul proprio sito un documento di 88 pagine dal titolo “Law Enforcement Disclosure Report”, in cui fornisce una serie di dettagli (ma non tutti) sulla sua cooperazione con 29 governi, a cui da anni fornisce l’accesso delle conversazioni dei propri clienti senza che questi ne siano a conoscenza. I Paesi indicati nel rapporto sono: Albania, Australia, Belgio, Repubblica Ceca, Congo, Egitto, Fiji, Francia, Germania, Ghana, Grecia, Ungheria, India, Irlanda, Italia, Kenya, Lesotho, Malta, Mozambico, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Portogallo, Qatar, Romania, Sud Africa, Spagna, Tanzania, Turchia e Regno Unito.

“Le agenzie governative e le autorità di questi Paesi - si legge nel comunicato - hanno la possibilità di applicare tecniche di analisi avanzate ad ogni aspetto delle nostre comunicazioni (movimenti, interessi e interazioni di ogni singolo individuo), ottenendo informazioni della loro vita privata inimmaginabili due decenni fa”. Il tutto ovviamente - precisa il documento - sempre entro i limiti delle norme in vigore in ognuno di questi Paesi, al fine di “proteggere la sicurezza nazionale e la sicurezza pubblica, indagare e prevenire azioni terroristiche o criminali”. L’Italia è in cima alla “lista dei 29”. Nel nostro Paese le norme restrittive in materia non mancano, anche se nonostante ciò guidiamo la classifica delle richieste “legali” di accesso ai tabulati: nel 2013 sono state 605.601, un’enormità rispetto alle 3 inoltrate ad esempio dal governo francese, motivate secondo il “Guardian” dalla necessità di monitorare i traffici e gli spostamenti della criminalità organizzata.

 

Gli Stati “canaglia”
In almeno sei di questi 29 Paesi (presumibilmente Albania, Egitto, Ungheria, India, Malta, Qatar, Romania, Sudafrica e Turchia, anche se Vodafone ha evitato di indicarli esplicitamente per tutelare la sicurezza dei suoi dipendenti) è stato invece messo a disposizione delle agenzie governative l’accesso diretto ai cavi che collegano ai dati immagazzinati nei network degli operatori telefonici. Tradotto significa che i governi di questi Stati non hanno accesso solo ai metadata (vale a dire i tabulati con le informazioni su data, durata e numeri interessati da una telefonata) ma possono ascoltare direttamente le conversazioni telefoniche e identificare la posizione dei soggetti interessati senza che a Vodafone o ad altre compagnie venga presentato un mandato o la richiesta di un giudice semplicemente perché sono le loro leggi a consentirlo, permettendo così lo di bypassare “qualsiasi forma di controllo operativo da parte dell’operatore sull'intercettazione” nonostante, secondo i garanti della privacy, venga chiaramente infranto l’articolo 12 della Dichiarazione universale dei diritti umani.

 

Il perché della mossa di Vodafone
Puntando a non perdere l’equilibrio tra le richieste dei governi e il rispetto della riservatezza dei suoi utenti, cercando possibilmente di continuare ad accontentare i primi e non perdere la fiducia dei secondi, Vodafone ha lasciato però dei punti in sospeso. Le reazioni positive non sono mancate, come quella della norvegese Telenor Group che si è offerta di cooperare con Vodafone per ridisegnare i rapporti con i governi, e di Deutsche Telekom (140 milioni di clienti in tutto il mondo), che si è detta pronta a seguire l’esempio della compagnia britannica. Senza dimenticare i colossi della Silicon Valley (Microsoft, Facebook, Twitter, LinkedIn, Google, Apple e Yahoo) che da tempo stanno facendo pressione sull’Amministrazione Obama affinché mandi segnali di alleggerimento in merito ai propri programmi di sorveglianza sul traffico di informazioni in rete. Il tutto a testimonianza del fatto che la consapevolezza dell’esistenza e dell’invadenza dell’occhio del Grande Fratello cresce sempre di più soprattutto nel popolo della rete, dove da poco è sbarcata anche una nuova campagna mediatica ideata dall’associazione no-profit “Fight for the Future” (su twitter l’hastag è #ResetTheNet), che promuove l’utilizzo del criptaggio dei dati come strumento per garantire la privacy delle comunicazioni online fornendo suggerimenti ed elenchi di applicazioni per sistemi operativi mobili e fissi. 

C’è chi però in questi giorni ha colto nell’operazione trasparenza di Vodafone ben altri obiettivi, vale a dire l’intenzione di fare un passo in avanti e confessare le colpe del “sistema” prima che fossero altri (Snowden, ad esempio) a metterla all’angolo con accuse da cui sarebbe stato difficile difendersi. In quest’ottica il tentativo sarebbe quello di dare un segno di discontinuità rispetto ad alcuni retroscena del passato, che hanno offuscato non poco l’immagine della società a livello internazionale. Il riferimento, nello specifico, è alle proteste scoppiate in Egitto nel 2011, quando il governo dell’allora dittatore Hosni Mubarak “costrinse” Vodafone a inviare ai propri abbonati egiziani messaggi di propaganda a sostegno del regime.

Ci sono poi le ammissioni non fatte sul rapporto con il GCHQ (British Government Communications Headquarters), l’equivalente britannico del NSA americana. Pochi giorni fa, il 3 giugno, sul sito britannico di tecnologieThe Registerè stata pubblicata un’inchiesta firmata dal giornalista Duncan Campbell, il quale attingendo da informazioni fornitegli da Snowden ha messo in luce alcuni dettagli sull’operazione denominata “CIRCUIT”, un piano attraverso cui il GCHQ - servendosi di una base situata nel nord dell’Oman (Seeb, nome in codice “TIMPANI”) - avrebbe intercettato i cavi sottomarini da cui passa la linea Internet che percorre lo stretto di Hormuz, tra l’Iran e la Penisola Arabica. L’accesso ai cavi sarebbe stato fornito dalla BT (British Telecom) e, per l’appunto, anche da Vodafone, in cambio - sempre secondoThe Register– di decine di milioni di sterline all’anno.

Alla luce di ciò, dare per buona la versione di Stephen Deadman dell’ufficio privacy di Vodafone (“Esistono questi cavi. Stiamo chiedendo che venga fermato questo accesso diretto utilizzato dalle agenzie governative per ottenere i dati sulle comunicazioni delle persone”) e credere che dopo questo rapporto i Paesi “spioni” cambieranno le proprie leggi e pubblicheranno  annualmente i dati sulle richieste emesse è fin troppo anche per clienti notoriamente “facili” da accontentare come quelli della telefonia mobile.

Se vogliamo comunque trarre un insegnamento e una morale da tutta questa vicenda, dovremmo rassegnarci a vivere con la consapevolezza che tutte le nostre comunicazioni sono facilmente accessibili e che, quindi, lo scotto che dobbiamo pagare a un sistema sempre più sofisticato e di facile accesso è che la nostra privacy è molto più labile di quanto nell’era degli smartphone e dei tablet. È una realtà che coinvolge tutti, nessuno escluso: le istituzioni, i governi e, ovviamente, i cittadini.

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Rocco Bellantone