Perché la Colombia ha detto No all'accordo con le Farc
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Perché la Colombia ha detto No all'accordo con le Farc

Il No all'accordo con la guerriglia non è un rifiuto della pace, ma di un patto apparso come un inaccettabile colpo di spugna sul passato

«Non mi arrendo, continuerò a ricercare le soluzioni per una pace definitiva. Il cessate il fuoco è bilaterale e definitivo, cercherò la pace fino all'ultimo giorno del mio mandato. il risultato del voto non deve destabilizzare il Paese,  convocherò oggi stesso le forze politiche della Colombia, in particolare quelle del 'no, al fine di ascoltarle e stabilire la strada da seguire per proseguire sulla strada della pace»
Juan Manuel Santos, presidente colombiano


«Malgrado questa sconfitta, proseguiremo nel dialogo, nelle parole, abbandonando le armi, per continuare a costruire il futuro del paese in pace»
Rodrigo Londono 'Timochenko', capo politico delle FARC

La vittoria del No nel referendum  sull'accordo di pace tra le guerriglia e lo Stato colombiano, culminata nella stretta di mano di Cartagena de Las Indias, è un colpo molto duro per chi aveva creduto che fossero maturi i tempi per porre fine a 52 anni di guerra civile che hanno lasciato sul terreno, secondo Unidad para la Victimas, oltre 267 mila morti (l'81% dei quali civili), duecentomila desaparecidos e otto milioni di sfollati.

Ma non è ancora detta l'ultima parola.

La reazione lucida di Santos e Timochenko ne è la più chiara testimonianza. Tutte le cancellerie mondiali - l'Unione europea, gli Stati Uniti, le Nazioni Unite, il Vaticano - erano e continuano a essere a favore del processo negoziale iniziato cinque anni orsono e siglato a L'Habana qualche mese fa tra i leader della guerriglia e il presidente colombiano.

Nessuno in Colombia, nemmeno la gran parte di coloro che hanno votato No seguendo le indicazioni dell'ex presidente Uribe, vuole tornare a un'epoca in cui, alle ragioni della politica, si sostituiscano le bombe, gli agguati, lo stillicidio quotidiano di morti di soldati, civili, guerriglieri, in un Paese dove ancora oggi il 40% del territorio è controllata dalle Farc.

Il punto è un altro.

Quello a cui hanno detto no i colombiani, in una consultazione  dove si è recato alle urne solo il 37% degli aventi diritto, è un accordo che secondo molti colombiani assomiglia troppo a un colpo di spugna, quasi un riconoscimento politico della guerriglia, che di lì a poco si sarebbe fatta partito e sarebbe entrata in parlamento, come già avvenuto nei primi anni 80 con il gruppo guerrigliero MR20.

È su questo piano che ha vinto il fronte del No capeggiato dal chiacchierato da Uribe. Non un No tout court alla pace, ma un No a un accordo dove, alla smilitarizzazione delle basi militari delle Farc e all'ammissione dei propri crimini, sarebbe seguita un'amnistia tombale sul passato, cui si sarebbero aggiunti un una tantum - ritenuto scandaloso per la memoria delle vittime - di due milioni di pesos (600 euro) e un assegno di circa 200 euro mensili per due anni a ogni guerrigliero che accettava di abbandonare le armi.

Il ricordo del passato, specie nelle aree attraversate dal conflitto dove il No ha vinto con un margine consistente, è ancora troppo fresco per milioni di colombiani che hanno subito sulla propria pelle le conseguenze di una guerra ultradecennale. Le ferite del passato non sono ancora state rimarginate, ma il fronte del No ha vinto perché non ha soffiato per tutta la campagna elettorale sulla vendetta, ma sulla giustizia, sul fatto che, per molti, è ancora oggi uno scandalo che chi ha seminato morte non paghi nemmeno con un giorno di carcere le conseguenze delle proprie azioni.

Il piano B per Santos, che fu ministro della Difesa del governo Uribe, è un nuovo decreto - da non sottoporre a referendum confermativo - che potrebbe venire incontro ad alcune delle richieste del fronte del No, senza mettere in discussione tutto l'impianto negoziale culminato con la stretta di mano tra Santos e Timochenko a Cartagena.

Nonostante la guerriglia colombiana, coi suoi 7000 effettivi, controllasse fino a ieri circa il 40 del territorio colombiano, il contesto internazionale e geopolitico non consente del resto più la presenza di una forza armata di ispirazione marxista-leninista che per decenni è stata finanziata dalla Cuba comunista e negli ultimi venti anni, con il progressivo venir meno del sostegno de L'Habana, è diventata anche un vettore dell'esportazione di cocaina in Europa e negli Stati Uniti.

Non ci sono più, del resto, le condizioni per rilanciare una guerra che non è più funzionale a nessuno, né in Colombia né in tutte le Americhe. 

Il punto, semmai, è come rilanciare l'accordo  di pace senza tradire i risultati referendari, né imporre condizioni umilianti per i guerriglieri che intendano consegnarsi. Non è un compito semplice per Santos, al quale va riconosciuto il coraggio dell'impopolarità. Ma la Colombia è il Paese che è riuscita a vincere una guerra ben più sangunosa di quella, ormai a bassa intensità, delle Farc: la guerra contro il narcoterrorismo del cartello di Medellin di Pablo Escobar.

Tutti voglono voltare pagina, salvo i nostalgici delle forze paramilitari di destra e gli amici dei narcos, i quali - in un quadro di instabilità e conflitto permanente - trovano le migliori condizioni per portare avanti i loro affari.

È su questo punto, nonostante l'inattesa sconfitta, che Santos farà affidamento per non essere costretto a rinnegare tutto quello che il suo governo ha fatto negli ultimi anni. Venuto meno il sostegno politico e finanziario di Cuba, le Farc, per bocca del suo suo leader Timochenko, sono pronte a proseguire sulla strada intrapresa. La vittoria del No è solo uno stop a un processo negoziale storicamente maturo, non una pietra tombale sul futuro di un Paese che nonostante tutto vuole guardare avanti. Non sarà semplice, ma alla pace - presto o tardi - non c'è alternativa.

La Colombia, tra pace e guerra

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Raul Castrocheide al presidente Juan Manuel Santos di avvicinanrsi al capo della guerriglia Timochenko

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Paolo Papi