Salvini
Ansa
News

Chi ha paura del "dittatore"?

Salvini, Casaleggio, siamo così abituati agli allarmi delle opposizioni che ci conviviamo. Serenamente

Ora il dittatore è Matteo Salvini, o forse Luigi Di Maio, anzi meglio Davide Casaleggio. Fino a sei mesi fa il dittatore era un eurocrate o qualche suo concessionario di zona, che peraltro incombono minacciosi all’orizzonte. Chiunque è all’opposizione, ormai da tanti anni, denuncia il pericolo imminente di una dittatura in Italia. E lo denuncia nonostante che dal 1994 in poi, cioè dall’avvento della seconda Repubblica a oggi, ogni governo uscente è stato bocciato alle elezioni, in perfetta alternanza. Un tempo il dittatore in pectore era Silvio Berlusconi, poi un mezzo golpe bianco spodestò Berlusconi e dittatura fu la sequela di governi senza legittimazione democratica. Dall’opposizione Beppe Grillo tuonò contro la dittatura di Matteo Renzi che comandava su tutte le ruote, e molti vedevano nel suo bullismo qualcosa del tirannello. Ritorna ora l’ombra del dittatore, anche per bocca dello stesso Berlusconi che denuncia il regime illiberale dei grillini.
Ma da una vita la sinistra denuncia il pericolo del fascismo e del nazismo alle porte, che è poi la riedizione dell’eterno grido d’allarme della «reazione in agguato» che serviva ai regimi comunisti per sopprimere i dissidenti. L’antifascismo è diventato una preghiera quotidiana che sfida il ridicolo e la realtà e serve a chiamare alla vigilanza democratica contro l’orco che verrà. Ci siamo così abituati alla denuncia del dittatore in arrivo che ormai conviviamo serenamente con dittature presunte, presenti e future. Ma c’è una particolarità che rende il discorso (già in sé surreale) ancora più assurdo e grottesco: se si facesse un referendum popolare con la macchina della verità, la dittatura vincerebbe a larga maggioranza. Democraticamente. Liberamente. Paradossalmente. È proprio il dittatore, del resto «l’animale che mi porto dentro», per dirla con Franco Battiato e con Francesco Piccolo: in me, in te, in lui, in loro. Il dittatore.

Loro denunciano il pericolo di una dittatura, e lo vedono nei quattro cantoni della nostra democrazia: tra i populisti o tra gli oligarchisti, tra i sovranisti o tra i globalisti; a sinistra, a destra, sotto e sopra. Ma serpeggia e non da oggi tra la gente un desiderio indecente di dittatura. È il desiderio di decisioni rapide, nette, radicali. La voglia di semplificare e finalmente risolvere i problemi annosi, risanare, bonificare, compiere opere pubbliche in poco tempo, fronteggiare gli eurarchi di sopra e i migranti di sotto, ma anche i corrotti di dentro e le carogne di fuori. Un desiderio a 360 gradi, anzi a 370 per dirla con la «scienzata» grillina, la ministra per il Sud Barbara Lezzi. C’è bisogno di decisioni rapide, efficaci, nette, e invece si impantanano nei veti incrociati, nei compromessi al ribasso, nelle spinte opposte che si neutralizzano a vicenda producendo somma zero. Il risultato è l’inerzia o al più l’inezia, il topolino, dopo aver annunciato la montagna. Oppure si rimanda a domani, non per senso di responsabilità ma per paura di perdere oggi il proprio ruolo. Meglio galleggiare. Accadeva nella prima Repubblica, poi nella seconda, e accade ancora nella cosiddetta terza Repubblica con il contratto senza alleanza tra grillini e leghisti, che tirano in direzioni opposte. E si uniscono solo davanti al Nemico che vuole espropriarli del mandato ricevuto.
D’altra parte nel mondo Putin, Trump, Xi, Erdogan, Bolsonaro e via via scendendo, suggeriscono che un decisore, se non un dittatore, un autocrate, ci vuole per governare il caos. Magari a tempo, come i dittatori d’epoca romana, con mandato circoscritto e controllo.

Serpeggia la dittatura delle virtù, di giacobina memoria, tra i grillini, con il loro desiderio di spazzare via classi dirigenti, la stampa allergica, i poteri consolidati e tutti coloro che sono sospettati di essere corrotti. Ma serpeggia la dittatura del politicamente corretto a sinistra, con la loro arroganza e il loro disprezzo del popolo volgare e del suo voto; un potere che raddrizzi il popolo e lo rieduchi a suon di precetti, prescrizioni e proscrizioni. Serpeggia il desiderio dell’«Uomo forte» a destra, con Salvini e oltre, uno che possa far funzionare un Paese che non funziona, metterlo in sicurezza e decidere senza eternamente mediare. E serpeggia, inutile nasconderlo, anche tra i tecnici e gli eurotutori, che vorrebbero i Paesi sotto tutela e sotto schiaffo, in un regime tecno-finanziario in cui il voto non conta, il dogma è l’euro, il peccato originale è il debito sovrano, il paradiso è il pareggio di bilancio.
Però il desiderio del dittatore è maggioritario anche tra i cittadini sfusi e perfino astensionisti, ovvero tra la gente senza targa e senza appartenenza, che non va a votare per sfiducia generale. Ma con queste premesse perché poi la dittatura resta solo un desiderio frustrato, una specie di Godot beckettiano, un’evocazione dei tartari di Dino Buzzati? Perché la dittatura che voglio io non è quella che vuoi tu.

La dittatura del vicino è sempre più brutta. È sul come farla, a chi affidarla, che poi ci dividiamo. Alla fine non chiediamo a gran voce la dittatura non solo perché ce ne vergogniamo, o vogliamo che a dirlo sia prima qualcun altro, e poi se non ci sono reazioni ostili ci accodiamo. Ma perché arriva sempre la dittatura degli altri, mai quella che vorremmo noi. E tanta è la paura che diventi una dittatura contro i nostri interessi, i nostri comodi, che alla fine ripieghiamo sull’inconcludente democrazia, dove i danni sono vasti e assicurati ma gli errori, pur gravi e molteplici, sono più spalmati e non sono irreparabili...
Il guaio dei dittatori invocati o paventati è che tu li aspetti da una parte, e invece ti sbucano sempre dalla parte opposta. Alle tue spalle. 
© riproduzione riservata

I più letti

avatar-icon

Marcello Veneziani