Giappone: nessuno vuole più smaltire le scorie di Fukushima
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Giappone: nessuno vuole più smaltire le scorie di Fukushima

Dopo più di un anno il 90% dei rifiuti non è ancora stato smaltito. E la popolazione si rifiuta di mettere a disposizione gli inceneritori della periferia per velocizzare il processo perché teme la contaminazione

A più di un anno di distanza dalla tragedia di Fukushima, continua a far discutere, in Giappone, il problema dello smaltimento delle scorie radioattive accumulate dopo il disastro.

Per fare in modo che l'intera nazione potesse sentirsi coinvolta nel progetto studiato per riportare il Sol Levante "alla normalità", il governo aveva pensato di distribuire quattro dei venti milioni di tonnellate di rifiuti e scorie da smaltire tra tutti gli inceneritori del paese. E invece, una serie di resistenze a livello locale non solo sta posticipando nel tempo lo smaltimento, ma sta anche rendendo più difficile per la nazione lasciarsi alle spalle i ricordi del disastro di marzo 2011 e le sue conseguenze.

In alcune città la popolazione è scesa in piazza per protestare contro l'iniziativa e per impedire ai veicoli carichi di rifiuti di accedere agli inceneritori. Per molti di loro, infatti, non si tratta di scarti ma di scorie. Perché per tutto il tempo in cui sono rimasti abbandonati sulle spiagge e nelle campagne dei villaggi rasi al suolo da terremoto e tsunami non hanno fatto altro che riempirsi di radiazioni, diventando sempre più pericolosi.

Quando Tokyo si è resa conto che a quattordici mesi dall'incidente il 90% dei resti non era ancora stato ne' trasferito ne' smaltito, ha tentato di correre ai ripari. E ha invitato i giapponesi ad aiutare il paese a "tornare pulito entro il 2014". Ma nessuno pare essere disponibile ad accogliere rifiuti contaminati in aree in cui il livello delle radiazioni non ha mai superato i valori di allarme.

"Non è accettando che queste pericolose scorie siano trasportate al Sud che noi giapponesi dimostreremo di essere un popolo unito e solidale nei confronti dei terremotati della regione di Tohoku", ha spiegato uno dei ragazzi che la scorsa settimana hanno bloccato per otto ore l'accesso all'inceneritore di Kyushu. "Dividerci i rifiuti contaminati serve solo ad ampliare il raggio di azione delle radiazioni, cosa di cui il paese non ha affatto bisogno".

L'allarme sulla pericolosità dello smaltimento delle macerie dello tsunami lo ha creato il governo quando ha spiegato che i rifiuti accumulati all'interno della Prefettura di Fukushima non avrebbero potuto essere trasportati e bruciati da nessuna parte perché la loro eliminazione avrebbe liberto una quantità di radiazioni troppo elevata e difficile da controllare. Ed è chiaro che, partendo da questo presupposto, si è consolidata la paura che i fumi sparsi dagli inceneritori che si occuperanno dello smaltimento dei rifiuti delle prefetture di Miyagi e Iwate possano essere altrettanto dannosi.

Il governo cerca di rassicurare la popolazione spiegando che se ci fosse stato un rischio, anche minimo, di estendere il raggio di azione delle radiazioni, il progetto di gestire lo smaltimento dei rifiuti su scala nazionale non sarebbe mai stato approvato. Eppure, il semplice fatto che, dopo Fukushima, il limite di radioattività contenuta nelle scorie considerato "tollerabile" sia passato da 100 a 8.000 becquerel al chilo (è questa l'unità di misura delle radiazioni) aumenta lo scetticismo con cui vengono giudicate le dichiarazioni dei burocrati di Tokyo.

C'é, infine, chi ha sottolineato che dal momento che il trasferimento di questi rifiuti sarebbe costosissimo, e considerando che il governo ha deciso di spostarne al sud solo il 20%, sarebbe forse più conveniente allungare di qualche mese il periodo massimo entro cui lo smaltimento dovrà essere completato e risparmiare, oltre a tante polemiche, anche una grossa fetta di risorse. E chi, con malizia, ha sostenuto che se Tokyo deciderà di andare avanti ad ogni costo diventerà evidente che il progetto di "smaltimento nazionale" nasconde interessi che nessuno è ancora riuscito ad intuire.

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Claudia Astarita

Amo l'Asia in (quasi) tutte le sue sfaccettature, ecco perché cerco di trascorrerci più tempo possibile. Dopo aver lavorato per anni come ricercatrice a New Delhi e Hong Kong, per qualche anno osserverò l'Oriente dalla quella che è considerata essere la città più vivibile del mondo: Melbourne. Insegno Culture and Business Practice in Asia ad RMIT University,  Asia and the World a The University of Melbourne e mi occupo di India per il Centro Militare di Studi Strategici di Roma. Su Twitter mi trovate a @castaritaHK, via email a astarita@graduate.hku.hk

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