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MOHAMED EL-SHAHED/AFP/Getty Images
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Omicidio Regeni: il ruolo dei militari in Egitto

Se la morte del giovane friulano è avvolta da mistero, le accuse contro i servizi segreti sono ormai difficili da schivare

Per Lookout news

In seguito alla morte di Giulio Regeni, lo studente friulano di 28 anni che era scomparso nella capitale egiziana in circostanze misteriose, pubblichiamo l’intervista (intitolata “Tutte le strade portano Al Sisi”) del giugno 2014 a Gennaro Gervasio, professore di Politica e Storia del Medio Oriente presso la British University in Egypt (BUE) al Cairo, per meglio comprendere il ruolo e il peso immutabile della casta dei militari in Egitto. Dalle ragioni del colpo di Stato agli errori della Fratellanza musulmana, fotografia di un paese controverso che ha resistito all’ondata islamista con il pugno di ferro.

Giulio Regeni: tutti i misteri della morte in Egitto

Giulio Regeni torturato prima di morire


Dove e quando inizia, storicamente parlando, e su cosa si fonda lo strapotere della gerarchia militare in Egitto?
A considerare esclusivamente le radici storiche, la prima dinastia militare dopo l’avvento dell’Islam fu quella dei Tulunidi (705 d.C.) ma vero è che fu solo con Mehmet Ali Basha (più noto come Muhammad Ali Pascià) – fondatore di quello Stato militare tanto incisivo nella storia della società egiziana, e che il sociologo egiziano Anwar Abdelmalek in un noto libro del 1962 ha, a giusto titolo, chiamato “società militare” – che fu avviato un corpo di riforme che saranno alla base di cambiamenti socio-culturali e dell’impostazione statuale che hanno dato vita all’Egitto moderno. In realtà, però, ritengo che la differenza non stia tanto nell’esistenza in sé della casta dei Mamelucchi, cioè la casta militare che aveva l’effettivo controllo del Paese fino a inizio Ottocento, che sicuramente ha avuto un ruolo illuminante in Egitto quanto a connubio tra potere e politica, ma che pure è esistita altrove.

Qual è allora la chiave di volta?
A mio parere, la chiave è la Rivoluzione del 1952, riuscita in rapporto ad altri colpi di Stato avvenuti nello stesso periodo in Iraq o Siria che non hanno avuto la stessa capacità di incidere sulla società plasmandone proprio la percezione che essa aveva di sé stessa come invece è avvenuto in Egitto. I militari guidati da Nasser, quel 23 luglio, si sono potuti avvantaggiare con legittimità e come modello di successo della tradizione e della storia di Muhammad Ali e dei suoi successori, tutti guerrieri e difensori dello Stato, a parte l’ultimo Khedivè (sovrano, ndr) Ismail, deposto dal Regno Unito. Dal 1952 in poi, la tradizione risalente a Mohammed Ali, è infatti stata usata dall’esercito e dallo stesso Nasser per puntellare lo speciale ruolo che l’istituzione militare deteneva. Ma di certo, se si parla di quel golpe come di “rivoluzione” è proprio perché rivoluzionò la struttura sociale del Paese.

Dunque, attraverso il colpo di Stato del 1952, l’esercito ha iniziato a difendere la “causa nazionalista”?
In senso più ampio, la “causa nazionale” (ovvero la costruzione dello Stato moderno) egiziana fu sicuramente impersonata dallo stesso Muhammad Ali, capostipite di una casta militare importante per l’Egitto, in quanto respinse l’invasione “europea”, eliminò l’esercito neo-mamelucco e rese di fatto indipendente l’Egitto dal Sultanato ottomano. Non a caso, nelle scuole egiziane egli è tuttora considerato fondatore del Paese e pioniere della rinascita egiziana, pur non essendo lui stesso egiziano. Se guardiamo internamente all’Egitto, però, prima ancora di arrivare alla Rivoluzione del 1952, un primo tentativo di rivolta nazionalista fu messo in atto da Ahmed Orabi Basha, un sottufficiale proveniente dal mondo rurale – tanto che si firmava FallahBasha, “contadino” – la cui prima richiesta fu proprio che l’esercito fosse nazionalizzato per rimpiazzare l’élite turco-albanese portata con sé da Muhammad Ali. La rivolta che portò avanti (1880-82) fu sì anti-coloniale ma presentò in tal senso le prime vere e proprie istanze sociali. Non è un caso che la sua figura sia stata ignorata durante tutto il periodo britannico e liberale prima del 1952 e poi riportata alla luce proprio dai militari che presero il potere con Nasser.

La nazionalizzazione dell’esercito avvenuta a fine Ottocento funse dunque da collante sociale? 
È corretto affermare che in Egitto l’esercito è alla guida della costruzione della Nazione. E sicuramente la nazionalizzazione dell’esercito, in parte avviata già sotto Muhammad Ali, fu un fenomeno importante – oltre a un’esigenza concreta dovuta alla necessità di rinforzare i reparti militari – che portò alla presa di coscienza nazionale della classe media egiziana (da cui, ricordiamo, provenivano gli stessi Nasser e Sadat) e che è stata il corpo centrale della rivolta dei Liberi Ufficiali. Le prime istanze nazionaliste nascono proprio dai giovani che chiedono la “democratizzazione” dell’esercito e di questo, fu precursore Ahmed Orabi. Anche l’abbattimento del regime monarchico viene, non a caso, dall’esercito.

Quando i militari diventano “il potere”
Prima del 1952 i militari agivano subordinatamente. Solo dopo la rivoluzione la casta militare decide di fondersi con il potere creando quella “con-fusione”, intesa come fusione tra Stato e potere militare ancora attuale, che garantisce all’istituzione prerogative uniche e quel ruolo speciale che altrove non ha, ma che soprattutto permea la società egiziana stessa. In questo senso, parliamo di “società militare”. Proprio i militari sotto Nasser, al potere appunto dal 1952, aprono a quella fetta di popolazione che finora era stata esclusa da tutto e fondano quel welfarestate che contraddistinguerà la presidenza nasseriana – pieno impiego, sanità gratuita, piena educazione, nazionalizzazione delle fabbriche – e che rappresenta sia la ragione per cui fu tanto amato sia il motivo per cui lo stesso Al Sisi oggi sfrutta in suo favore il parallelismo che spesso viene fatto tra il neo-presidente e Nasser.

Venendo al presente, l’equazione “islamizzazione contro laicità” che i liberali hanno sfruttato nella propaganda post-Morsi, significa che l’esercito è a difesa della laicità dello Stato?
Malgrado le esigenze di propaganda, l’istituzione militare non è affatto un baluardo della laicità. L’esercito rimane un pilastro conservatore e lo stesso Al Sisi era uno dei membri dello SCAF (il Consiglio Superiore delle Forze Armate, ndr) tra i più conservatori, religiosamente e socialmente parlando. La questione qui non è il rapporto tra laicizzazione e islamizzazione, ma piuttosto tra civilizzazione contro militarizzazione dello Stato. Militarizzazione non certo intesa all’israeliana, quanto piuttosto come ingerenza dei militari nella realtà egiziana a tutti i livelli.

Nel 2011, per arginare la rivoluzione e ovviare al pericolo di un cambiamento radicale che avrebbe potuto spingere verso la civilizzazione statuale – come in parte stava accadendo sotto il regime di Mubarak, grazie all’azione del figlio Gamal, per questo non graditissimo alle gerarchie militari – l’esercito decide di allearsi con i Fratelli Musulmani. Oggi, invece, essi rappresentano il nemico giurato dei militari. Ma non certo a causa del progetto ideologico-culturale del Movimento islamista, che non ha nulla in contrario a un’istituzione superconservatrice come quella dell’esercito. Senza contare che la società egiziana nel suo complesso non è certo laica.

Perché inizialmente l’esercito ha sostenuto la Fratellanza?
I militari scommisero sui Fratelli Musulmani nel febbraio-marzo 2011 sicuramente perché rappresentavano una forza popolare. Ma soprattutto per ragioni economiche, essendo l’élite militare interessata ad arrestare l’ascesa del gruppo di capitalismo “neoliberista” raccolto intorno a Gamal Mubarak. Nel sostenere la Fratellanza, i militari erano consapevoli che i loro privilegi non sarebbero stati messi a repentaglio (come dimostrava anche la Costituzione del 2012, che concedeva ai militari prerogative molto ampie). Non dimentichiamoci che lo stesso Al Sisi era stato nominato leader dello SCAF nell’agosto 2012 proprio da Morsi, quasi a rinsaldare un connubio tanto ideologico quanto di comodo. Quel matrimonio poi è andato in crisi, ma non perché i Fratelli Musulmani avessero deciso di implementare la Sharia. Piuttosto, a causa degli “autogol” commessi dallo stesso Morsi. Solo con l’avvio della campagna Tamarrod (primavera 2013), l’esercito si rende conto che il partner che aveva scelto non avrebbe più retto.

E perché poi decide di sciogliere la Fratellanza?
Quello che è stato fatto più di recente dagli apparati di governo (sostenuti dai media, con pochissime eccezioni) con il Movimento islamista è stato “alterizzare” i Fratelli Musulmani, cioè espellerli dal corpo della nazione attraverso la propaganda mediatica, spesso anche falsata e distorta, al solo scopo di polarizzare ulteriormente la società. Di certo, però, la propaganda militare non ha i tratti di una propaganda islamofobica, come superficialmente si potrebbe pensare, quanto piuttosto “ikhwanofobica” (da “ikhwan”, Fratelli, sottinteso Musulmani, ndr). Tra l’altro, si tenga presente anche che tra le reclute e i sottufficiali dell’esercito sono molto diffuse le nuove leve della Fratellanza.

Il dissenso attuale contro l’esercito, molto forte all’interno delle università, è omogeneo come appare? E il colpo di stato del luglio 2013 rappresenta ancora l’unico argomento di dibattito?
La rappresentazione che i mass media e le autorità vogliono dare è che tutto il fronte che attualmente manifesta contro il regime militare sia interamente islamista, ma nella realtà è molto più variegato. Innanzitutto, c’è chi pur non essendo islamista non si riconosce nel regime instaurato il 3 luglio del 2013. C’è tutta la parte dei liberali che protestavano già nel 2006 e 2007 contro l’ingerenza dello Stato sulle libertà individuali e civili, e che ora criticano ad esempio le nuove leggi anti-protesta varate da questo governo. Poi ci sono i nasseriani e i socialisti rivoluzionari, che hanno sostenuto Hamdeen Sabahi (candidato presidente contro Al Sisi alle ultime elezioni presidenziali, ndr) e difendono gli obiettivi traditi della Rivoluzione del 25 gennaio. Infine, ci sono anche i salafiti, nonostante il partito ufficialmente abbia sostenuto la candidatura di Al Sisi. Quanto al colpo d Stato, non è più un’ossessione collettiva ormai, se non per quelli che possiamo considerare gli “ultras” dei Fratelli Musulmani, che leggono la storia come se cominciasse proprio quel 3 luglio.

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Marta Pranzetti