Usa e Israele, alleati per forza
L’arrivo del presidente degli Stati Uniti in Israele ha tutti i presupposti per essere una inconcludente “visita di cortesia”. Troppa la distanza tra Obama e Netanyahu
Obama arriva oggi in Israele dopo ben 5 anni dal suo insediamento alla Casa Bianca. E lì non passa inosservato il fatto che nel 2009, da poco eletto, il presidente degli Stati Uniti scelse invece come prime tappe internazionali l’Egitto e la Turchia. Già descritta da più parti come una probabile “gita turistica”, indicando così poche possibilità di portare a casa qualche risultato concreto, questa visita è in realtà già una conquista, data la difficoltà di mettere insieme l’intero programma, tra luoghi vietati e luoghi da evitare. Obama non sarà comunque un “turista per caso”.
Sul tavolo dei colloqui con il premier riconfermato Netanyahu e il presidente Peres, l’eterna questione dei negoziati di pace, la continua espansione degli insediamenti in Cisgiordania, il programma nucleare iraniano e la crisi siriana. Anche se non ci si aspetta il lancio di alcuna nuova iniziativa o la conclusione di un accordo particolare, il momento nell’intera regione è particolarmente delicato. Le primavere arabe si stanno rivelando poco democratiche e lasciano ampi spazi ai movimenti islamisti radicali, l’Iran è a un passo dal realizzare l’arma atomica e Netanyahu ha minacciato un intervento diretto prima dell’estate se Teheran non fa un passo indietro. I caccia di Assad hanno colpito la valle della Bekaa, varcando il confine libanese e incrementando la possibilità di allargare il conflitto a un Paese in perenne equilibrio precario. E infine, Obama arriva a pochi giorni dalla formazione del nuovo governo israeliano, ancora guidato da Netanyahu, ma orfano degli ultraortodossi e con i nuovi alleati centristi dello Yesh Atid di Yair Lapid e i coloni del Focolare Ebraico di Naftali Bennet.
Le divergenze di vedute
Anche in assenza di grandi aspettative, il viaggio di Barack Obama non sarà una passeggiata. Difficile sarà, in primis, cancellare il sentimento reciproco di sospetto e di sfiducia tra i due leader che in passato ha fatto sì che Obama “fosse troppo impegnato” per ricevere il premier in visita in America nel 2012 e che Netanyahu appoggiasse apertamente la candidatura di Mitt Romney durante la campagna elettorale. Nonostante l’Ambasciatore USA a Tel Aviv, Dan Shapiro, abbia descritto un’attesa entusiasta degli israeliani per l’arrivo del presidente, Obama non raccoglie grandi consensi. Le ripetute richieste di Washington di fermare la costruzione di nuovi insediamenti, visti come un ostacolo insormontabile al processo di pace, ha irritato il governo come parte dell’opinione pubblica israeliana, che le hanno interpretate come indebite pressioni per concessioni unilaterali alle autorità palestinesi. Anche sull’Iran vi sono divergenze, questa volta di tempistica. Per Tel Aviv, un ipotetico arsenale atomico iraniano è una minaccia diretta all’esistenza dello Stato ebraico, e la sua realizzazione sarebbe imminente. La “linea rossa” di Netanyhau sta per essere varcata. I tentativi dell’alleato di indurre Israele a maggiore pazienza e diplomazia hanno generato il dubbio di una reale volontà americana di sostenere il governo in una eventuale azione preventiva. Teheran sta rafforzando le difese agli impianti e Tel Aviv ha paura di non riuscire a distruggerli se aspetta troppo.
Il timore di un’accoglienza fredda
Obama è consapevole che oggi rischia un’accoglienza fredda, e forse per questo il programma non prevede, come invece sarebbe naturale, un suo discorso alla Knesset, dove non può contare su molti amici. La Casa Bianca ha invece optato per un discorso alla società civile. O per meglio dire, alla gioventù israeliana. il presidente Obama parlerà a un pubblico prevalentemente composto da studenti universitari al Convention Center di Gerusalemme: una mossa strategica congeniale a un presidente che già durante la sua prima campagna elettorale ha saputo mobilitare in patria l’opinione pubblica dei cittadini comuni, a fronte di un sistema basato sulle lobby. Lo stesso ha fatto durante la visita in Egitto nel 2009, con il suo discorso all’Università del Cairo. E più recentemente lo ha ripetuto con il suo discorso sullo Stato dell’Unione nel febbraio scorso, rivolgendosi più agli americani che ai congressisti.
Questa linea velatamente populista è la carta che Barack Obama ama giocare quando ha davanti a sé ostacoli difficili da superare. Scavalcare le autorità istituzionali e fare appello direttamente a una generazione di giovani, più moderna e meno legata alle bibliche origini della terra di Sion, potrebbe essere un modo per fare pressioni sul governo, questa volta dal basso e dall’interno, se riuscirà a galvanizzare la folla di studenti. Basterà? Certo è che l’esecutivo di Netanyahu non è un governo forte, nato dopo ben sei settimane dalle elezioni. Il partito laico e di centro Yesh Atid potrebbe essere il contrappeso alle ambizioni dei falchi, contrari alla soluzione dei due Stati e favorevoli invece alla continua colonizzazione dei territori occupati. Ma un cambiamento deve essere sostenuto anche dalle richieste dal basso. E forse Obama vuole partire proprio da qui, da quella gioventù che può rappresentare un futuro diverso per il Paese, ma che - diversamente dai giovani americani - è anche fortemente militarizzata e ben consapevole dei rischi oltrefrontiera. Vedremo in questi giorni se i calcoli del presidente americano sono corretti.