Teatri di Guerra: se il giornalista è una minaccia
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Teatri di Guerra: se il giornalista è una minaccia

La scomparsa di Domenico Quirico impone una riflessione sul ruolo del giornalista di guerra e sui pericoli che si corrono in questo mestiere

(per LookOut news )

Negli ultimi anni, il numero di giornalisti caduti nei vari fronti di battaglia è cresciuto in misura esponenziale. Al punto che il giubbotto con la scritta “Press”, più che proteggere sembra attirare come il miele le malevole intenzioni dei vari contendenti sempre più frequentemente. Il giornalista, si sa, pur di stare sulla notizia tende a sopravvalutare la propria invulnerabilità e a sottovalutare i problemi di sicurezza, spesso inconsapevolmente, vuoi per la poca o per la troppa esperienza.

Se in un teatro di guerra o in un’area attraversata da forti tensioni etniche o religiose si applica la propaganda e quindi la disinformazione, chi vuole fare informazione è sicuramente considerato un nemico. In Siria, oggi, tutti i contendenti fanno disinformazione. Questo è un fatto. Ed è chiaro che, in un simile scenario, il nobile lavoro di persone come Domenico Quirico (l’inviato de La Stampa scomparso in Siria da settimane) non può che dare fastidio. E certo, la presenza stessa di giornalisti occidentali è fonte di irritazione per tutte le parti in causa.

L’addestramento necessario

Anche per queste ragioni, lavorare in zone di guerra oggi dovrebbe presupporre non soltanto un addestramento specifico sulle misure di sicurezza alle quali fare ricorso ma anche un corso di alfabetizzazione culturale, che metta il giornalista occidentale in grado di interagire senza incidenti con le forze in campo. Se si ha a che fare con estremisti religiosi sunniti o sciiti, ad esempio, le giornaliste occidentali non debbono vergognarsi di coprirsi i capelli. Anche perché un paio di pantaloni attillati e una chioma al vento in certi posti sono veri e propri passaporti per l’inferno. Sembra una banalità ma non si è mai troppo prudenti o rispettosi in situazioni di instabilità.

Un “viaggio” dev’essere sempre pianificato in ogni dettaglio, soprattutto se comporta una lunga permanenza. Oltre a verificare l’effettiva validità dei documenti (compresi visti e permessi), bisogna contemplare un’adeguata pianificazione finanziaria - attraverso la giusta combinazione di contante, travellers cheque ed altri strumenti - ma soprattutto l’organizzazione della logistica in loco: è sempre preferibile avere un rappresentante o un agente di contatto sul posto, cui demandare - soprattutto a inizio missione - la gestione della logistica sul territorio (meglio se tale azione può essere eseguita con uno o più viaggi di preparazione). Questo, per i giornalisti esperti come Quirico non è affatto una novità, ma le condizioni di precarietà del settore spingono sempre più spesso giovani free lance inesperti ad avventurarsi senza le adeguate coperture.

I checkpoint e i servizi segreti

Un elemento di pericolo costante per il giornalista in zone attraversate da conflitti nasce dal fatto che i servizi segreti di tutti i Paesi usano fin troppo spesso la copertura giornalistica per inviare sul campo i propri agenti, e questo suscita inevitabilmente le non infondate paranoie degli attori in campo.

I posti di blocco sono tra i momenti più rischiosi per l’attività dei reporter, poiché sempre più tesi alla verifica sia del materiale documentale sia dell’identità dei fermati come presupposto irrinunciabile per la prosecuzione del viaggio, anche se l’inviato dispone di una guida esperta e ben conosciuta. Uno dei principali pericoli è dunque rappresentato proprio dai checkpoint, elemento ricorrente della maglia difensiva delle forze presenti sul territorio (tra l’altro, si teme che Domenico Quirico possa aver avuto problemi proprio a un posto di blocco siriano).

Quattro sono i principali tipi di checkpoint: quello militare regolare; quello regolare però tenuto da unità indisciplinate; quello irregolare, tenuto da personale non militare; quello irregolare, tenuto da forze allo sbando e dedite al saccheggio. Due norme comportamentali sono particolarmente importanti nella gestione dell’attraversamento dei checkpoint: la prima concerne il linguaggio e l’atteggiamento nei confronti del personale (militare e non), che deve necessariamente essere pacato, mai accompagnato da gesti bruschi e sempre caratterizzato da toni concilianti e amichevoli.

La seconda concerne invece abbigliamento e attrezzature: assolutamente imperativo evitare di recarsi in aree a rischio con oggetti di valore, con capi di abbigliamento o simboli che possano indurre gli interlocutori a dedurre l’appartenenza o simpatia verso gruppi politici, etnici e religiosi, o ideologie ostili. Si prenda il caso della kefiah: in gran parte del Medio Oriente il copricapo ha un significato completamente distinto dal significato attribuito allo stesso capo in Occidente, soprattutto a seconda del colore e della trama del tessuto.

Al tempo stesso, è opportuno dare alle apparecchiature professionali il giusto valore in relazione alla situazione affrontata. Se sarà quindi opportuno difenderle dinanzi all’eventuale prepotenza di un militare regolare inserito in un dispositivo disciplinato, la stessa azione potrebbe determinarsi letale in costanza di un irregolare indisciplinato. La regola che vede l’incolumità della persona prima di ogni altro aspetto, deve quindi considerarsi quasi sempre prevalente. Sacrificare senza indugio denaro e attrezzature, può salvare la vita.

Detto questo, non è facile imporsi regole valide in assoluto in situazioni di crisi come quelle appena descritte. È però opportuno ricordare che, per quanto fondamentale sia il lavoro degli inviati di guerra, va sfatato il mito romantico del “reporter senza frontiere”: le frontiere e i posti di blocco esistono eccome. Anzi, esse sono ovunque e possono uccidere più spesso dei bombardamenti.

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Luciano Tirinnanzi