E se a iniziare la guerra fosse un casus belli?
(Zuma/LaPresse)
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E se a iniziare la guerra fosse un casus belli?

Cosa accadrebbe se l’attacco in Siria fosse condizionato da un evento imprevisto? Dalla prima guerra mondiale all’incidente del Tonchino, il rischio è dietro l’angolo - Speciale Siria

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E se a trascinare l’Occidente nella guerra in Siria fosse un imprevisto “casus belli”? Ieri, poco prima che il Segretario di Stato John Kerry, assieme al Segretario alla Difesa Chuck Hagel e al Capo di Stato Maggiore della Difesa, Martin Dempsey, rispondessero all’audizione della Commissione Esteri del Senato USA - che, insieme alla Camera, dovrà votare il “sì” all’attacco punitivo contro il regime siriano - alcuni missili balistici sono affondati in mare, proprio di fronte alle coste della Siria.

Il primo a rilevare la presenza di tali missili nel Mediterraneo Orientale è stato l’alto comando russo, che ha allertato prontamente non l’esercito o gli alleati ma una nutrita schiera di giornalisti, i quali hanno provveduto a battere immantinente la notizia. Che, in questo modo, ha fatto il giro del mondo in pochi secondi, creando un vero e proprio giallo che ha fatto temere alla comunità internazionale l’inizio inaspettato dei raid su Damasco. Il test missilistico, invece, è stato condotto da una base dell'aviazione israeliana: dopo le prime resistenze, lo ha confermato poche ore lo stesso premier Netanyahu, comunicando ai media di aver effettuato un test missilistico congiunto con gli USA nel Mediterraneo, peraltro “già concordato da tempo”. Fine del giallo, inizio della chiarezza.

Con questa mossa, infatti, sembra di sentir scaldare i motori della macchina bellica americana. La manovra, certo propagandistica, era volta non tanto a testare le reazioni dell’opinione pubblica quanto, più probabilmente, a capire la reazione sul campo degli avversari, cioè della coalizione “ufficiosa” che vede la Russia schierata a fianco dell’amico Assad.

Le aspettative russe e i movimenti di truppe siriane

Da parte sua Mosca, dopo le prime spacconate per bocca del suo presidente Vladimir Putin - che ha sbeffeggiato Obama per l’apparente marcia indietro sull’attacco – col passare delle ore e dei giorni appare sempre più angustiata all’idea che il Congresso USA appoggi davvero l’intervento. Per questo, stamani ha annunciato che potrebbe anche appoggiare il raid americano contro Assad, “nel caso in cui gli USA forniranno le prove e non si opporranno a un nuovo passaggio alle Nazioni Unite”.

Cosa che probabilmente non avverrà mai, per una semplice ragione: Obama sa bene che nessuna prova convincerà mai la Russia che a far uso delle armi chimiche è stato il regime e sa altrettanto bene che niente impedirà alla Cina di opporre il proprio veto in Consiglio di Sicurezza, visto che tradizionalmente Pechino si è sempre opposta a qualsiasi intervento armato. E, del resto, nella sua storia, l’ONU non è mai riuscita a impedire alcuna guerra, al punto che la sua credibilità e utilità nel consesso internazionale vengono meno di anno in anno. Perciò, gli Stati Uniti non abboccheranno né cederanno al gioco del “poliziotto buono e del poliziotto cattivo” russo-cinese.

Solo il G20 di San Pietroburgo potrebbe offrire un serio dibattito sul tema, ma nessuno (tranne forse Papa Francesco) si aspetta che le rigide posizioni da Guerra Fredda tra Stati Uniti e Russia si sciolgano nell’antica capitale e Corte degli Zar.

Così, dunque, il lancio dei missili di ieri mattina era solo un messaggio a ogni buon intenditor, mentre il Sigint (Signal Intelligence) raccoglieva informazioni mediante l'intercettazione e l’analisi di segnali dai satelliti e la Humint (Human Intelligence) monitorava gli spostamenti sul campo delle armate di Assad, che in queste ore frenetiche va spostando le sue preziose batterie di Scud e va mimetizzando i reparti delle brigate di terra, in attesa dello scontro, che il comando dell’esercito siriano considera ormai inevitabile.

Il possibile “casus belli”

Stando così le cose, il rischio maggiore che si corre in questa guerra di parole non è solo che presto si passi ai fatti per come essi sono stati descritti dai suoi propugnatori - ovvero un bombardamento punitivo made in USA senza “boots on the ground”, cioè senza interventi di terra, come vanno ripetendo in una sorta di mantra gli uomini di Obama - ma che tutto precipiti in ragione di “imprevisti” che potrebbero condizionare negativamente e modificare significativamente i piani militari tracciati dalle forze armate americane.

Ovvero, il verificarsi quel “casus belli” - talvolta creato ad arte - che dall’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria nel 1914 all’incidente del Tonchino del 1964 (cioè dalla Prima Guerra Mondiale al Vietnam), servirono a giustificare escalation militari fino a coinvolgere le potenze internazionali in guerre i cui esiti, come noto, furono di gran lunga peggiori delle previsioni.

Cosa accadrebbe, ad esempio, se una salva di missili - non necessariamente partita dalla Siria - colpisse Tel Aviv o Amman o lambisse la Turchia? Cosa accadrebbe se un caccia o una nave da guerra - americana, francese o inglese, poco cambia - venisse colpita nel Mediterraneo Orientale? E se fosse russa? Cosa direbbero, infine, Obama, Hollande  e Cameron se un attentato sconvolgesse una capitale europea o si verificasse una strage di cittadini americani in qualunque parte del mondo?

Il rischio al quale siamo esposti è dunque grande e, in qualunque modo la si voglia vedere, al netto della dietrologia sulle ragioni dell’intervento, nessuno a Occidente e a Oriente può dirsi al riparo dalle conseguenze di una guerra mediterranea. L’ora è grave e impone riflessioni serie sul futuro prossimo.

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Luciano Tirinnanzi