Più ombre che luci sul voto afghano
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Più ombre che luci sul voto afghano

Con le votazioni del 5 aprile l’Afghanistan prova a voltare pagina. Ma chi vincerà erediterà un Paese frammentato in decine di etnie e clan che ancora oggi contano più delle istituzioni

 

C’è stata molta euforia per le elezioni svolte il 5 aprile Afghanistan. Il voto è stato salutato da Stati Uniti, ISAF (International Security Assistance Force), ONU e, in generale, da tutta la comunità internazionale come il simbolo di un Paese che volta pagina, dopo trent’anni di guerra civile e l’instaurazione di un regime integralista, in uno stato di transizione andato avanti per oltre un decennio con una presenza straniera “a sostegno del legittimo governo” di fatto però mal tollerato non solo dalle etnie locali ma anche dagli stessi ambienti istituzionali afghani.

Eppure sono state proprio le istituzioni afghane quelle che in larga misura hanno speculato sulla missione ISAF, ottenendo centinaia di milioni di dollari in progetti per il consolidamento della governance e per lo sviluppo del Paese, di cui buona parte è finita nelle tasche di potenti personalità politiche (incluso il presidente uscente Hamid Karzai), nonché dei rispettivi entourage e clan di appartenenza.

Il punto sulle elezioni
I pochi dati circolanti sull’esito delle elezioni - al momento tutt’al più indicativi e dunque con ampi margini di oscillazione - rivelerebbero un quadro generale positivo sul piano della regolarità, ma anche per ciò che concerne il numero di attacchi ai seggi o alle sedi istituzionali da parte dei talebani. Nel dettaglio, l’IEC, la Commissione Elettorale Indipendente, ha presentato una prima stima dei votanti: sarebbero circa 7 milioni (alcuni media riportano invece una cifra che si aggira intorno ai 12 milioni) a fronte delle elezioni del 2009, quando si recarono alle urne 4,5 milioni di elettori. Al dato sull’affluenza viene affiancato quello relativo al voto della popolazione femminile che si assesterebbe (il condizionale è d’obbligo) tra il 35 e il 40%, confermando il progresso nel cammino verso l’affermazione dei diritti delle donne all’interno della società e della vita politica afghane (le donne costituiscono il 48% della popolazione del Paese).

Altro dato positivo rilevato è quello riguardante il clima di violenza il giorno della votazione: l’opinione generale è che nonostante i numerosi attacchi che hanno coinvolto sia gli uffici elettorali che le forze di sicurezza e i cittadini stranieri fino al giorno prima del voto, lo scenario di guerra che tutti si attendevano il 5 aprile non ci sia stato. “Ballots as bullets against Insurgency” (“Voti come pallottole contro gli insorti”), (come vengono definiti i talebani), titola il quotidiano online afghanoDaily Outlook Afghanistan: è in breve il senso che si è voluto dare alla giornata del 5 aprile, decantata come una sconfitta per i talebani.

L’ombra di Hamid Karzai
Il tanto pubblicizzato successo di queste votazioni che, ricordiamolo, non sono state indette solo per la successione alla presidenza ma anche per il rinnovo dei consigli provinciali, presenta anche molte ombre. Tra i media c’è chi canta fuori dal coro dell’euforia generale, che prevedibilmente si smorzerà con il passare del tempo quando la realtà dei fatti prenderà il sopravvento sulle aspettative. Non si possono analizzare queste elezioni senza conoscere l’Afghanistan, un Paese che va inquadrato sempre con un occhio attento rivolto alle realtà locali. L’Afghanistan è infatti un groviglio di situazioni diverse e contrastanti, con tradizioni e culture profondamente radicate nel vivere quotidiano. L’occupazione russa si è scontrata con questa frammentazione. Poi, all’alba del nuovo secolo, è toccato a una coalizione internazionale realizzare che per nulla erano cambiate le logiche tribali e familiari, che ancora oggi continuano a prevalere nelle divisioni etniche e nelle scelte politiche volte a proteggere e allargare i feudi dei potenti locali.

Uno sguardo ai candidati e alla loro campagna elettorale chiarisce il concetto. Alcuni sono gli stessi signori della guerra, più volte accusati di violazioni dei diritti umani, corruzione e traffico di droga. Altri, come Qayum Karzai, fratello del presidente uscente, e Sardar Mohammad Nadir Naeem, si sono ritirati per sostenere un concorrente, Zalmai Rasoul, non per convinzione quanto - più realisticamente - per obbedire alle pressioni e alle logiche di potere o di appartenenza a un clan. Perché anche se ufficialmente si è dichiarato neutrale, Hamid Karzai ha in realtà manovrato la campagna elettorale da dietro le quinte. Rasoul è riconosciuto da tutti come il candidato che ha indirettamente appoggiato per poter mantenere comunque il potere anche senza la carica di presidente. Questi è infatti ritenuto un candidato “debole” e facilmente manipolabile da Karzai, di cui è stato tra l’altro anche un fedele ministro. Se vincerà, per Karzai sarà come ottenere indirettamente un terzo mandato.

Lo stesso vale, seppur con le debite differenze, anche per gli altri candidati. Chi non è un signore della guerra, ne ha comunque reclutato qualcuno come candidato al ruolo di vice presidente.

I dubbi sulla legittimità del voto
In Afghanistan sono cinque le grandi città: Kabul, Herat, Mazar-i-Shariff, Kandahar e Jalalabad. Il resto del Paese è territorio rurale. Il controllo dei seggi delle città da parte delle forze di sicurezza non ha impedito la chiusura del 25% dei seggi nelle aree rurali, in cui l’affluenza è stata in molti casi minima e gli episodi di intimidazione e di violenza sono stati frequenti. Come riporta il New York Times, in molti casi la paura ha tenuto gli afghani a casa, non tanto per il pericolo di un attacco durante il voto, quanto per le ritorsioni dei talebani una volta chiusi i seggi e partite le forze di sicurezza, che in diversi casi difficilmente riescono a presidiare con costanza le zone più remote. Va infine menzionato l’elevatissimo numero di brogli elettorali rilevati, tra schede truccate e singoli elettori trovati in possesso di più schede. Se è stato positivo il fatto che molti di essi siano stati scoperti, rimane tuttavia il dubbio sulla legittimità dei risultati.

Se dunque la democrazia ha raggiunto i grandi centri urbani, pur tra mille contraddizioni, la stragrande maggioranza del territorio ha viaggiato a un’altra velocità in una dimensione parallela in cui non esiste il concetto di nazione e di presidente, ma quello di villaggio, di capo tribù e di clan. Difficilmente chi vincerà queste elezioni - essendo tutti i candidati legati a uno o più poteri locali - potrà rappresentare realmente il cambiamento verso la definitiva democratizzazione dell’Afghanistan. Per questo occorrerebbero politiche di integrazione etnica incisive a livello nazionale, una repressione decisa della corruzione e lo smantellamento dei feudi regionali. La leadership afghana non è riuscita a farlo in oltre un decennio pur avendo sovvenzioni e sostegno anche militare da parte della comunità internazionale. Difficilmente ci riuscirà potendo contare da adesso in poi solo sulle proprie forze.

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Cristina Era (Lookout news)