Naufragio migranti nel Mediterraneo
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Matteo Salvini e la Libia: perché la questione migranti passa tutta da qui

La prova più dura per il ministro dell'Interno e vicepremier, la cui strategia sarà in larga parte influenzata anche dal futuro politico di Tripoli

La questione migranti che ha sconvolto la pace del Mediterraneo da ormai molti anni a questa parte la si può raccontare col piglio del populismo da campagna elettorale permanente. Oppure con la freddezza e il cinismo dei vertici politici francesi.

Meglio, però, sarebbe tentare di raccontare questa vicenda con un’analisi quanto più possibile scevra da ideologie e sentimenti. A cominciare dalle azioni poste in essere dall’attuale governo italiano.

La fase politica inaugurata dal neo ministro degli Interni Matteo Salvini è, come noto, densa d’insidie. Ma anche di opportunità. Prima di vedere quali, però, è necessario fare un passo indietro per comprendere alcune delle decisioni-chiave che il ministro ha fatto proprie.

Il modello Trump

Che lo ammetta pubblicamente o meno, il ministro Salvini ha fatto tesoro dell’esperienza americana del presidente Donald Trump, le cui mosse egli ha personalmente monitorato sin dal 2016, fino ad appuntarsi alcune delle regole auree che gli hanno garantito un successo senza precedenti. Tra queste, probabilmente la più importante da tenere a mente è la seguente: mantenere a ogni costo le promesse fatte agli elettori.

Così come Trump insiste nel voler costruire il muro con il Messico, nel voler impedire l’ingresso dei migranti, nel mantenere in piedi il bando per i cittadini provenienti da alcuni paesi musulmani, così anche il governo Conte - di cui il leghista è primo e più importante azionista - ha scelto di perseguire la medesima strada, costi quel che costi.

Superfluo dire che la sua politica di rigore contro gli sbarchi di clandestini in Italia stia pagando, soprattutto in termini (in ogni caso aleatori) di consenso statistico. Più pregnante è capire invece come questa fase così cruciale - specie per la stagione estiva - si potrà concretizzare affinché duri nel lungo periodo, e quali benefici essa riuscirà a portare all’intero sistema-Paese, che oggi si ritrova ostaggio di una percezione d’insicurezza mai così elevata.

Migrazioni permanenti

Il che ci porta sulle sponde della Libia, come noto principale hub delle partenze dei migranti. Non deve destare scandalo il fatto che il passato governo, attraverso l’ex ministro Marco Minniti, abbia stretto in Tripolitania alcuni accordi con referenti politici libici che erano in contatto con la criminalità organizzata (che gestisce in toto il traffico di esseri umani).

Da tali accordi, che prevedevano somme di denaro in cambio di respingimenti in loco dei migranti provenienti dall’intera Africa, è disceso un buon risultato per l’Italia: gli sbarchi nel 2017 sono infatti diminuiti del 70%.

Tale sorprendente risultato, frutto anche di un importante lavoro dell’intelligence italiana, risulterà però effimero, se non verrà consolidato nel lungo periodo e se non sarà allargato all’arco geopolitico che va dal Marocco alla Siria. Questo perché la prima lezione che s’impara sulle migrazioni, specie quelle riguardanti il continente africano, è che esse sono e restano un fattore strutturale e caratteristico delle società di questo secolo.

Dunque, i migranti rappresenteranno un problema permanente per il Mediterraneo. Pertanto, se le migrazioni sono un fenomeno durevole e una sfida costante, di certo da parte del governo italiano una soluzione degna di tale nome non potrà certo consistere nel foraggiare ad libitum alcuni referenti libici che - non tanto per loro natura, quanto per le condizioni politiche in cui versa il Paese dal 2011 - sono personaggi ambigui, inaffidabili e spesso collusi con la criminalità organizzata, quando non direttamente con le milizie islamiste.

In parole povere, sono contatti precari che non possono rappresentare un punto di riferimento. Quanto detto coinvolge in primis il governo di Tripoli, dove il premier Fayez Al Serraj è una figura isolata, di scarso peso politico e del tutto inadeguata a guidare la futura Libia

Tutto ciò è evidente anche al ministero degli Interni - non si pensi il contrario - eppure l’agenda Salvini sembra privilegiare un’altra strada, ossia punta prima a gestire il dossier europeo: accoglienza e quote di ridistribuzione di migranti, controllo dei mari e depotenziamento ong.

Che il ministro tragga da ciò un beneficio politico personale, questo è altro conto che lasciamo volentieri ai commentatori politici. Il fatto è però in sé evidente: chiudere i porti italiani o, quantomeno, modificare le regole d’ingaggio sul salvataggio dei migranti è vitale per gli interessi europei e per le vite di centinaia di migliaia di cittadini africani.

La comfort zone in cui l’Europa si trova adesso non è infatti sostenibile né tantomeno è sufficiente a impedire risvolti negativi di stampo politico-sociale in seno all’intera società europea.

La scommessa politica in Libia

Pur tuttavia, il dicastero degli Interni sa o dovrebbe sapere bene che la soluzione si trova comunque in Libia, e che ci sarà un caro prezzo da pagare per rendere efficaci le linee guida in materia di sicurezza e sbarchi.

Il nostro governo deve mettere in conto la necessità di investire su una rappresentanza politica e militare solida, unica e sola speranza per riuscire a stabilizzare la situazione e a contenere (non certo a risolvere) il fenomeno migratorio.

Uno dei traguardi è relativamente vicino. Da mesi, soprattutto a Parigi, si parla di favorire lo svolgimento di elezioni politiche in inverno, dalle quali dovrebbero emergere un presidente e un parlamento deputati a riunire le molte anime della Libia.

Su questo punto è prioritario offrire una risposta chiara: su chi punta l’Italia? Quale gruppo o centro di potere intende favorire? Non si parli qui d’ingerenza inopportuna o di attentato alla democrazia, poiché la posta in palio è ben più alta del processo democratico, che peraltro non vige in Libia né è percepito come una priorità dalla maggioranza dei cittadini (ben più importanti sono la sicurezza sociale ed economica).

La borghesia libica e quel che rimane della sua dirigenza sembrano puntare molto sul Generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica: alla testa di decine di migliaia di soldati e sostenuto da Parigi, Haftar in passato ha minacciato persino di marciare sulla capitale, consapevole che incontrerebbe più sostegno che opposizione. Ma un’altra fase della guerra civile è ovviamente da evitare.

Dunque, serve un accordo generale, sponsorizzato da Paesi come appunto l’Italia, per dare respiro e libertà d’azione a una nuova classe politica che miri a stabilizzare la Libia e a governare le sue frontiere.

Pertanto, la fase dei respingimenti attuale, che tanta sofferenza e scandalo ha portato in Europa, deve necessariamente considerarsi solo come un punto di partenza doloroso, per sviluppare poi una più decisa strategia che colga l’unico risultato utile: instaurare un governo stabile e duraturo a Tripoli, che si faccia interlocutore e strumento delle nostre posizioni per creare un sistema di deterrenza alle partenze selvagge dal centrafrica verso il Mediterraneo.

Matteo Salvini è atteso alla prova più dura.

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Luciano Tirinnanzi