L'ombra dell'Isis sulle elezioni in Turchia
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L'ombra dell'Isis sulle elezioni in Turchia

Lo scandalo denunciato da Cumhuriyet alla vigilia delle elezioni fa adirare Erdogan. Ma non è una novità che Ankara favorisse gli jihadisti in Siria

 Per Lookout news

Can Dündar, direttore responsabile del quotidiano turco Cumhuriyet, è la classica vittima di una guerra trasversale a quella in corso in Siria e Iraq. Ovvero la guerra tra la verità e l’ipocrisia, che oggi trova in prima linea proprio la Turchia. La verità è che domenica 7 giugno 2015, circa 55 milioni di turchi sono chiamati a recarsi alle urne per il rinnovo della Grande Assemblea Nazionale (il parlamento unicamerale turco). Perciò, niente può e deve rovinare i piani del partito di governo Akp, che a questo giro rischia non solo di perdere molti consensi ma di non riuscire ad assicurarsi neanche la maggioranza semplice.

 Se il partito del presidente Recep Tayyip Erdoğan non otterrà i voti necessari a garantirgli tre quinti dei seggi totali dell’aula (il parlamento turco è formato da 550 deputati, eletti ogni quattro anni con un sistema proporzionale), il sogno della riforma presidenzialista che Erdogan ha in mente per il futuro prossimo, s’infrangerà per sempre e questo potrebbe corrispondere all’inizio della fine del suo “regno”.

 

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Lo scoop sgradito al presidente
Che c’entra il quotidiano Cumhuriyet in tutto ciò? Cumhuriyet rappresenta la voce laica della Turchia, quella che per dire si oppone alla deriva islamista del Paese, sostenuta proprio dal partito del presidente, ed è lo spazio in cui ogni giorno molti degli intellettuali turchi e internazionali scrivono e riversano le loro opinioni, spesso sgradite al governo.

 Venerdì della scorsa settimana, una di queste notizie ha colpito profondamente il presidente, che ha replicato denunciando il giornale e il suo direttore per “violazione del segreto di Stato”. Un tribunale di Istanbul ha quindi accolto la richiesta e il pubblico ministero di turno è arrivato a chiedere addirittura l’ergastolo per il direttore.

 Ma cos’ha fatto infuriare Erdogan? Presto detto. Una documentata inchiesta, con tanto di video e foto, che dimostrerebbe la fornitura di armi da parte dei servizi segreti turchi, il MIT, tanto airibelli siriani quanto agli uomini dello Stato Islamico (ISIS). Non proprio un regalo gradito per il governo, a pochi giorni dalla chiusura della campagna elettorale.

 Difatti, l’irascibile presidente ha promesso che il giornale e il suo direttore avrebbero “pagato a caro prezzo” questa intromissione nelle attività dello Stato. “Questa calunnia e quest’operazione illegittima contro l’Organizzazione dell’Informazione Nazionale (MIT, ndr) rappresentano in un certo senso un atto di spionaggio. Questo giornale è stato troppo coinvolto in quest’attività di spionaggio” ha dichiarato Erdogan all’emittente pubblica TRT.

 

I rapporti tra Turchia e ISIS
Ora, che la Turchia sia accusata di favorire il Califfato, non è proprio una novità. Ma il tempismo con cui questa verità, se di verità si tratta, è finita sui media di tutto il mondo, non è il massimo per il governo di un Paese che al proprio confine vede infuriare una guerra pericolosissima, che potrebbe sconvolgere finanche la stabilità interna e dove peraltro le rivendicazioni dei curdi e delle varie frange dell’estremismo di sinistra minacciano a giorni alterni la pace sociale.

 È dalla scorsa estate, comunque, che sul territorio turco si registrano gli ingressi di migliaia di volontari jihadisti giunti da mezzo mondo, Europa compresa, nel tentativo di entrare nei territori occupati di Siria e Iraq per dare man forte al Califfato. Ad oggi, si ha contezza anche di quasi duemila cittadini turchi confluiti nell’ISIS.

 In ogni caso, fornire loro direttamente le armi aggrava solo una posizione già ampiamente compromessa e peraltro ben nota, almeno ai servizi di intelligence di tutti quei Paesi che osservano con interesse e preoccupazione il disastro mediorientale.

 

Gaziantep, la “città dello Stato Islamico”

I media tedeschi Die Welt e ARD TV già nel 2014 rivelarono come il reclutamento dei volontari jihadisti avvenisse proprio all’interno del territorio turco, per di più alla luce del sole. A Gaziantep, nel sudest del Paese non molto lontano dal confine siriano e sulla direttrice che conduce ad Aleppo, si troverebbero veri e propri centri di reclutamento e di addestramento per jihadisti che, una volta completato il training, attraversano tranquillamente il confine e vanno a costituire l’esercito dello Stato Islamico, come confermato dal governatore della provincia di Gaziantep, Erdal Ata, che lo scorso settembre aveva segnalato una “situazione difficile in città”, in concomitanza con l’arresto di 19 trafficanti dello Stato Islamico.

 Ankara è accusata inoltre di commerciare petrolio con Mosul e Raqqa, le due capitali del Califfato. Buona parte dei proventi dei giacimenti petroliferi controllati dallo Stato Islamico deriverebbe proprio dall’esportazione del petrolio in Turchia. Si stima che la gran parte del carburante proveniente dalle raffinerie controllate da ISIS, raggiunga tanto Damasco (dunque anche il regime di Assad trafficherebbe con lo Stato Islamico) quanto e soprattutto la Turchia, dove viene venduto al dettaglio a prezzi molto convenienti, circa un terzo inferiori a quelli del mercato ufficiale. Il carburante giungerebbe attraverso autocisterne che si fermano proprio a Gaziantep, dove avverrebbe lo smistamento al mercato nero.

 

Nessuno vuole vincere la guerra
Dunque, nessuna novità. Il quotidiano turco Cumhuriyet e il suo direttore Can Dündar hanno fatto solo il proprio dovere di giornalisti, quello cioè di documentare. A dover far riflettere è semmai un altro dato. Le cifre snocciolate dal Pentagono, secondo cui dalla presa di Mosul (giugno 2014) a oggi sono circa 10mila gli uomini del Califfato uccisi, tradisce il fatto che almeno il doppio li ha sostituiti sul fronte.

 Altrimenti, non si spiegherebbe la notevole capacità dello Stato Islamico di mantenere posizioni, in alcuni casi continuare a guadagnare terreno, riuscire a diversificare gli attacchi e combattere su molti fronti contemporaneamente. E, soprattutto, non si spiegherebbe come possano avere ancora le forze per passare all’offensiva, come visto a Ramadi, in Iraq, dove gli uomini di Al Baghdadi hanno messo letteralmente in fuga l’esercito iracheno.

 

Ankara favorisce con ogni probabilità l’infiltrazione di jihadisti in Siria e Iraq, finanzia e commercia con lo Stato Islamico, non ama i curdi che combattono ISIS ed è indisponibile ad assoggettarsi alle regole degli Stati Uniti, pur essendo un Paese NATO. E proprio qui sta il vero punto. Come si giustifica un Paese NATO che non fa il gioco degli alleati?

 Mentre l’ONU resta a guardare impassibile una tragedia biblica che ha già partorito quasi 4 milioni di profughi, cancellato città e sterminato decine e decine di migliaia di vite umane (215mila solo in Siria), la coalizione internazionale anti-ISIS non agisce per come potrebbe. E, se questo è un atto volontario, allora significa che la coalizione non vuole affatto vincere la guerra.

 Che a Kobane i turchi non volessero combattere è un fatto noto. Che Assad poteva essere detronizzato già nel 2013 è altrettanto evidente. Che le armi americane in dotazione all’esercito iracheno fossero incustodite da tempo sospetto, è ancor più evidente. Che Ramadi sarebbe stata attaccata e rischiava di finire nelle mani dello Stato Islamico, lo sapevano anche i sassi. Così, come è un fatto acclarato che i miliziani attraversino ogni giorno più di una frontiera. Qualcuno, insomma, non la vuole proprio vincere questa guerra, anche se finge che non sia così.

 Se dunque l’innocenza è la prima vittima di una guerra, la verità è la seconda. In bocca al lupo, Can Dündar.

 

 

 

 

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Luciano Tirinnanzi