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Photo by Mark Wilson/Getty Images
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L'avanzata dell'Isis e le truppe Usa in Siria e Iraq

Gli Stati Uniti valutano di coinvolgere le forze di terra contro lo Stato Islamico. Lo dice il Segretario alla Difesa Ashton Carter

Per Lookout news

Una trappola per Obama o la solita schizofrenia della politica estera americana? Da settimane si rimpallavano voci su un possibile maggiore coinvolgimento delle truppe statunitensi sul territorio iracheno-siriano. E oggi è sceso in campo il titolare della Difesa, Ashton Carter - che con un abile giro di parole “non ci tireremo indietro dall’aiutare con ogni mezzo i nostri alleati, con missioni dirette dal cielo o di terra” - a sdoganare di fronte alla Commissione del Senato l’idea che i militari americani debbano essere schierati apertamente nel teatro siriano e iracheno.


Del resto, i blitz degli ultimi mesi confermano l’insofferenza interna al corpo militare, attraversato da crescenti malumori per gli ordini contraddittori e l’eccessiva inattività del Pentagono in Medio Oriente. Fonti non ufficiali affermano persino che gli ultimi tre blitz americani - uno fallimentare condotto in Yemen dai Navy Seals nel 2014 e altri due attuati in Siria e Iraq dalla Delta Force per uccidere Abu Sayyaf e per liberare 70 ostaggi nel 2015 - non siano altro che una provocatoria gara al rialzo tra i due reparti speciali e non invece frutto di un disegno più ampio.

Come a dire che tanto le truppe quanto i vertici del Pentagono non sono soddisfatti della politica dissennata dell’Amministrazione Obama, e si sentono profondamente umiliati dall’escalation militare da parte della Russia che, se non li ha coperti di ridicolo, è soltanto perché l’azione fulminea di Mosca si è impantanata dopo poche settimane e non è ancora riuscita a sfondare nel quadrante siriano tra Homs e Aleppo, dove invece lo Stato Islamico avanza e ha appena preso l’importante checkpoint lungo l’autostrada Khanaser-Ithriya.

Certo, l’impantanamento siro-russo-iraniano nel nord della Siria è frutto anche del sostegno americano, turco e saudita ai ribelli: gli alleati hanno, infatti, paracadutato in loro favore decine di tonnellate di missili anticarro TOW negli ultimi due mesi, e grazie a ciò stanno facendo strage dei carri armati di Damasco. Ma questo non basterà certo a fermare la guerra.

 

Raid, Raqqa, Ramadi: la regola delle “tre erre”
La Casa Bianca deve ancora prendere una decisione definitiva sulle opzioni per aumentare il sostegno alla campagna contro lo Stato Islamico, ma già si delinea il piano immaginato da Carter, che può essere sintetizzato nella regola delle “tre erre”: Raid, Raqqa, Ramadi.

 Lungo questa direttrice si potrebbe svolgere una massiccia missione che vedrebbe sostanzialmente un incremento dei raid mirati dal cielo, funzionale a penetrare poi nelle città di Raqqa - la seconda capitale dello Stato Islamico, quella siriana - e di Ramadi, nella grande provincia di Anbar, forse il più importante centro iracheno oggi sotto controllo del Califfato. Prese questi due centri nevralgici della jihad sunnita, lo Stato Islamico potrebbe essere decapitato forse in maniera definitiva.

 

Le critiche all’ipotesi
La teoria è oggettivamente corretta e l’obiettivo sensato anche dal punto di vista militare, ma pesanti critiche al piano di Carter sono piovute immediatamente, in gran parte dai repubblicani. Anzitutto, ci si domanda se questo piano “quantomeno affrettato” secondo il senatore Lindsey Graham, possa poi provocare un’escalation militare degli USA contro la Russia.

Carter ha risposto che nessuna forza anti-Assad sostenuta dagli USA o che ha fatto parte del programma di formazione dei ribelli, è stata attaccata dalle forze russe, ma il senatore John McCain ha tuonato “non è così, stiamo mandando uomini supportati dalla coalizione a essere macellati. Chi li proteggerà dalle barrel bomb di Assad?”.


Mentre il senatore Graham ha sostenuto anche: “Se io fossi Assad questo sarebbe un bel giorno per me, poiché gli Stati Uniti hanno appena fatto capire che non intendono combattere per sostituirmi. Anche se fossi russo, iraniano o di Hezbollah sarebbe un bel giorno, perché i ragazzi non hanno alcuna minaccia credibile di fronte a loro”.

Insomma, il punto per i repubblicani - che detengono la maggioranza sia al Senato che alla Camera - è che la politica mediorientale di Obama è da bocciare in toto e che una guerra non si conduce così. Sembra di percepire un senso generale di sconfitta in una parte del Congresso, che vede scemare giorno dopo giorno le possibilità di arrestare il caos nella regione e che ormai preferisce una guerra per procura per fiaccare i russi che non un impegno diretto per risolvere direttamente il problema.

 

Chi è il vero nemico?
Ma è davvero lo Stato Islamico il nemico numero uno in Siria e Iraq? Questa è la prima domanda da porsi. Sia il Cremlino sia il Pentagono, infatti, sinora hanno fatto ben poco per frenare l’avanzata del Califfato. Se Mosca si tiene lontana dalle zone controllate dall’ISIS perché intende proteggere unicamente i propri interessi lungo le coste siriane (che gli garantiscono un accesso strategico ai “mari caldi”), oggi magari ascolteremo i portavoce della Casa Bianca annunciare un nuovo dietro front all’iniziativa del Segretario della Difesa Carter.

D’altronde, nessun politico vuole entrare nell’anno delle elezioni presidenziali con una guerra lontana in corso, che miete nuove vittime americane e non porta risultati utili in patria. Non lo vogliono i repubblicani, che pure sono spesso favorevoli alla guerra, né tantomeno i democratici, che potrebbero perdere consensi proprio in ragione delle scelte sconsiderate del loro presidente democrat.


EPA/RUSSIAN DEFENCE MINISTRY PRESS
Un bombardiere russo SU-34 in una base siriana vicino a Latakia, 6 ottobre 2015.

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Luciano Tirinnanzi