Funerali di Shimon Peres
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Le conseguenze del riconoscimento dello Stato di Palestina da parte dell'Europa

Abu Mazen ha chiesto a Bruxelles di fare ciò che già l'Onu fece nel 2012. Ecco come sarebbe il possibile scenario

Il leader di Al Fatah, Abu Mazen, in qualità di presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese e dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ha fatto visita a Bruxelles lunedì 22 gennaio 2018, per chiedere all’Unione Europea, a margine della riunione mensile dei ministri degli Esteri Ue, che questa riconosca "ufficialmente e rapidamente" lo Stato di Palestina.

Una mossa che si configura chiaramente come una risposta politica alla decisione degli Stati Uniti di riconoscere Gerusalemme quale capitale unica dello Stato di Israele.

Il ruolo (potenzialmente) chiave di Federica Mogherini

Abu Mazen ha giocato la carta europea grazie agli assist offerti già in passato da Federica Mogherini, titolare della Politica Europea e Sicurezza Comune (PESC) dell’Ue, che corrisponde a una sorta di coordinamento dei ministeri degli esteri dell’Unione o, comunque, all’ufficio preposto alla gestione della diplomazia europea.

Mogherini, come noto, ha una visione molto chiara circa la causa palestinese e, se il suo dicastero propende già da tempo per la soluzione a sue Stati, lei personalmente crede più nella necessità del riconoscimento della Palestina che non nell’elevazione di Gerusalemme a capitale israeliana. Anzi, all’indomani della decisione storica di Donald Trump, commentò lapidaria: "Il premier Benyamin Netanyahu stamani ha detto di aspettarsi che altri Paesi spostino le loro ambasciate. Può tenere le sue aspettative per altri, perché dai paesi Ue questo non avverrà", chiudendo le porte a ogni ulteriore discussione.

Consapevole della posizione di lady PESC, perciò, il "ministro degli Esteri" di Palestina, Riyad Al Maliki, ha avuto gioco facile nel dichiararsi fiducioso che "i ministri degli Esteri europei riconoscano collettivamente lo Stato di Palestina".

Nonostante l’inclinazione di Mogherini, più in generale questo fatto resta piuttosto illusorio. E lo è per la natura ibrida dell’Unione, che ancora non possiede strumenti comuni tali da poter adottare un provvedimento simile con un pronunciamento univoco.

Secondo l’iter comunitario, infatti, ognuno degli stati membri dovrebbe riconoscere singolarmente la Palestina. Il che non è scontato né tantomeno sarebbe rapido.

Ma in concreto?

Dunque, la mossa di Abu Mazen somiglia più a una provocazione che non a una concreta speranza di vedere l’Unione Europea schierata e partecipe della causa palestinese. Non solo l’unanimità su questo delicato tema è lungi dall’essere raggiunta, ma l’Europa unita stenta non poco ad avere una posizione chiara nelle politiche concernenti il diritto internazionale, e guarda piuttosto alle prospettive economiche come unico orizzonte delle proprie azioni.

Ciò detto, potrebbe comunque verificarsi un caso simile a quello che nel 2012 ha visto le Nazioni Unite riconoscere la Palestina come “stato osservatore non membro”, quando cioè l’assemblea generale con 138 voti favorevoli, 9 contrari e 41 astenuti ha preso una posizione tale da aprire la strada a quanti, come la Svezia, hanno poi unilateralmente deciso di riconoscere ufficialmente lo Stato palestinese.

Stoccolma lo ha fatto nell’ottobre del 2014 suscitando all’epoca il plauso del mondo arabo e la protesta furibonda del governo israeliano, culminata nel ritiro dell’ambasciatore dalla capitale svedese. Prima di lei, solo l’Islanda lo aveva fatto.

Così, oggi sono già otto i Paesi Ue a riconoscere la Palestina: Svezia, Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Ungheria, Malta, Polonia e Romania (nel mondo sono oltre 130).

All’epoca della decisione svedese, l’Unione asserì che il riconoscimento comune da parte dell’Unione sarebbe avvenuto "quando sarà appropriato".

Dunque, se oggi qualcosa si muove nella diplomazia del Vecchio Continente, appare però molto difficile che Al Maliki e Abu Mazen ottengano da Bruxelles più che una promessa a occuparsi del caso.

Il loro viaggio europeo, così come quello compiuto dal premier israeliano Benjamin Netanyahu l’11 dicembre scorso, potrebbe rimandare la questione a data da destinarsi, nel tipico stile degli euro burocrati.

Uno sguardo al passato

Tuttavia, non va dimenticato che già nel 2014 il Parlamento europeo aveva accettato in linea di principio "il riconoscimento dello Stato palestinese e la soluzione a due Stati", collegandoli però allo "sviluppo dei colloqui di pace, che occorre far avanzare".

La risoluzione era stata approvata dall'intera assemblea con 498 voti favorevoli, 88 contrari e 111 astensioni. Il Parlamento di Strasburgo aveva ribadito "il proprio fermo sostegno a favore della soluzione a due Stati basata sui confini del 1967, con Gerusalemme come capitale di entrambi gli Stati e con uno Stato di Israele sicuro e uno Stato di Palestina indipendente, democratico, territorialmente contiguo e capace di esistenza autonoma, che vivano fianco a fianco in condizioni di pace e sicurezza, sulla base del diritto all'autodeterminazione e del pieno rispetto del diritto internazionale".

Una posizione mai più modificata, che traccia una linea precisa dalla quale l’Unione non si discosterà, se non per cause di forza maggiore. Se mai l’Ue dovesse riconoscere unanimemente la Palestina come stato indipendente, questo costituirebbe un precedente importante e anche un punto di non ritorno per la politica comunitaria. Perché significherebbe che il peso negoziale degli Stati Uniti in Europa è ormai sfumato e che l’America non influenza più le nostre decisioni. Il che, allo stato attuale, non è credibile. Sia per le divisioni interne all’Unione sia per il peso specifico che Washington esercita nei nostri confronti. Ma anche per la discutibile convenienza dell’Ue a farsi bandiera di una delle due parti.

Alla ricerca del mediatore ideale

Quello per il futuro di Israele e Palestina è un negoziato tanto incerto quanto complicato e somiglia sempre più alla trama di un’opera teatrale di Beckett, con quel famoso Godot di cui si attende tanto l’arrivo ma che non giunge mai. Forse, più che le ambasciate in Europa, i protagonisti di questa storia dovrebbero guardare cercare un mediatore all’interno dello stesso Medio Oriente, dove tutto è in divenire.

Israele potrebbe averlo già trovato nell’Arabia Saudita di Mohammed Bin Salman, mentre la Palestina è ancora indecisa su chi poter contare. Una cosa è però evidente: per ottenere un risultato, la concretezza e la ragion di stato dovranno definitivamente superare l’ideologia che tiene incatenati questi due Paesi.

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Luciano Tirinnanzi