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L’illusione di una vittoria in Siria

Smantellare le armi chimiche può diventare una chimera e affondare per sempre la presidenza Obama: lo speciale

(Lookout News )

La sconfitta del governo USA in Siria è racchiusa nel titolo stesso dell’accordo stipulato dai capi delle due diplomazie americana e russa, John Kerry e Sergei Lavrov: “Framework For Elimination of Syrian Chemical Weapons” ovvero “quadro per l’eliminazione delle armi chimiche siriane”.

Il quadro di cui sopra, infatti, presenta colori sbiaditi, pennellate ambigue e contorni talmente incerti che niente consente di apprezzarne l’insieme, al momento. Senza contare che la cornice legale entro cui si opera è assai sfuggente e non limita sufficientemente il regime siriano dall’agire indisturbato.

La bozza di Ginevra chiede alla Siria di fornire entro questo sabato una lista completa di tipologie, quantità e ubicazione degli arsenali chimici che il regime possiede, lasciando margini quantomeno eccessivi a Bashar Assad: sostanzialmente, si chiede all’imputato una confessione spontanea e si ha fiducia che egli consegni l’arma del delitto per poi essere sottoposto a processo. Il che suona quantomeno ambiguo.

Si legge poi nell’accordo: “Il controllo più efficace di queste armi può essere conseguito attraverso la rimozione del maggior numero possibile, sotto la supervisione OPAC (Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche), e la loro distruzione dovrà avvenire al di fuori della Siria, se possibile”. Insomma, non saranno distrutte tutte le armi, ma solo il maggior numero, “se possibile”. Il che non suona molto rassicurante.

Comunque, l’obiettivo è “completare tale rimozione e distruzione nella prima metà del 2014”, rinviando al Consiglio di Sicurezza ONU per eventuali sanzioni, in caso di mancato rispetto degli accordi. Dove il veto russo peserà in caso gli USA dovessero richiedere l’attacco punitivo. Ma questo non era il punto di partenza?

Fuga dell’arsenale chimico in Iraq?

L’uso di tutti questi condizionali e l’incertezza sui tempi ragionevoli non fanno altro che aggiungere perplessità sul futuro di un Paese in guerra. Nonostante Barack Obama in persona si ritrovi a citare Ronald Reagan - “trust but verify” ovvero credere ma verificare - il presidente degli Stati Uniti evade ancora oggi la risposta principale: che succede se le cose non vanno come stabilito?

Parlando in patria, il Presidente Assad ha già innalzato i toni della contesa e posto nuove condizioni prima di dar seguito al piano russo, chiedendo ancora “un mese” per presentare le relazioni richieste dall’ONU sulle scorte di agenti chimici. Questo nelle stesse ore in cui, secondo Al Watan, il regime avrebbe già iniziato a trasferire in Iraq convogli sospetti - che, per gli osservatori sauditi, trasportano parte dell’arsenale chimico siriano - sotto la supervisione delle Forze “Al-Quds” iraniane e con il beneplacito del premier iracheno Al-Maliki.

Un’analisi del Washington Post nota come la crisi siriana abbia avvicinato ulteriormente Iran e Iraq, allineati su posizioni convergenti almeno sin dal ritiro delle truppe statunitensi nel 2011. E non è un caso che l’8 agosto il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif, durante una conferenza stampa con il suo omologo iracheno, Hoshyar Zebari, abbia chiarito che l’Iraq “non sosterrà in alcun modo un attacco alla Siria”. Dichiarazione che fa riflettere, poiché Zebari è tuttora in amichevoli relazioni con gli Stati Uniti, dopo essere stato strenuo sostenitore dell’invasione americana nel 2003.

Responsabili statunitensi e mediorientali, citati dal Wall Street Journal, affermano anche che Assad avrebbe poi distribuito armi chimiche in circa cinquanta siti, per renderne difficile l’individuazione e l’eventuale distruzione. A sua volta, Kamal al-Labuani, membro del Consiglio Nazionale Siriano, avverte che “il regime siriano ha già consegnato a Hezbollah circa una tonnellata di armi chimiche”.

La posizione USA sempre più difficile

Dunque, delle due l’una: o gli Stati Uniti fanno il gioco della Russia (e dunque della Siria), ragion per cui hanno sostanzialmente accettato la sconfitta in Medio Oriente e intendono ritirarsi verso posizioni più disimpegnate per concentrarsi sul territorio nazionale. Oppure hanno soltanto procrastinato la decisione di intervenire in Siria, solo per evitare lo stop del Congresso e prendere tempo utile a creare consensi interni. Una scelta che un alleato non da poco come Israele definisce “infantile”.

Come ben spiega il giornalista britannico Timothy Garton Ash: “Negli anni Venti, gli americani non erano angosciati all’idea che una Cina in ascesa potesse togliergli l’hamburger di bocca e comprarsi poi tutto il chiosco, mentre ora lo sono”. Questo spiegherebbe la ritirata strategica di un sempre meno popolare Barack Obama, il cui indice di gradimento è passato dall’82% del 2008 fino al 33% di questi giorni. Però non spiega la mancanza di una chiara e definita politica estera. Un fatto che l’America, in ogni caso, pagherà a caro prezzo.

L’Iran e il nucleare

Da ultimo, anche se nella primavera 2014 sia gli Stati Uniti sia la Russia si dicono d’accordo nel sostituire Bashar Assad, i danni per la regione provocati da questa intesa potrebbero inoculare nuovi pericoli anziché costituire il modello diplomatico di riferimento per risolvere questioni cruciali, come la proliferazione del nucleare iraniano.

Obama sostiene in queste ore: “Credo che gli iraniani abbiano capito che la questione nucleare è un problema più importante, rispetto a quello delle armi chimiche. La mia idea è che gli iraniani abbiamo capito che non debbano pensare che, poiché non abbiamo colpito la Siria, non colpiremo l’Iran. Certo, deve essere anche chiaro che noi pensiamo sempre che ci dev’essere la possibilità di risolvere le questioni in modo diplomatico”.

Se il presidente russo, Vladimir Putin, si fa portavoce delle richieste del presidente iraniano Hassan Rouhani - il quale si dice disposto al dialogo internazionale sul nucleare, ribadendo tuttavia il diritto di Teheran all’uso pacifico della tecnologia nucleare e all’arricchimento dell’uranio - è ancora il presidente Obama che, intrappolato in un precedente inefficace come l’accordo sulla Siria, rischia di replicare la bruciante sconfitta ad opera dei russi anche con il dossier iraniano e concludere il suo mandato presidenziale con un niente di fatto, lasciando ai posteri una pesante eredità.

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Luciano Tirinnanzi