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Ankara paga con il sangue le scelte di Erdogan

La Turchia è nel mirino di due fazioni, ISIS e i curdi, che si combattono in Siria e che hanno scelto il presidente come nemico comune

Per Lookout news

Nella serata di domenica 13 marzo un’autobomba è esplosa ad Ankara nella centralissima Kizilay Square uccidendo 37 civili e ferendone oltre un centinaio. Tutte le vittime, al momento dell’attentato, erano assiepate presso un affollato capolinea di mezzi del trasporto pubblico quando un’auto carica di esplosivo si è schiantata contro un autobus. Secondo la polizia a bordo dell’auto bomba si trovavano due kamikaze, un uomo e una donna. Con questo attentato salgono a oltre 150 le vittime del terrorismo in Turchia negli ultimi sei mesi.

 L’ultimo attentato si era registrato lo scorso 17 febbraio quando venne fatta detonare una bomba contro un convoglio militare che provocò 28 morti. Quest’ultimo attentato venne subito rivendicato da un gruppo di indipendentisti curdi, i “Kurdistan Freedom Falcons”, appartenenti a una milizia che in Siria, con l’appoggio degli americani, è schierata contro l’ISIS. In assenza di una rivendicazione ufficiale le autorità turche non si sbilanciano sulla matrice dell’attentato di ieri.

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Secondo il quotidiano turco Sozcu l’attentatrice sarebbe un’ex studentessa universitaria turca, Seher Cagla Demir, che si sarebbe unita al PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) nel 2013. In attesa di avere maggiori riscontri in merito a questa informazione, sono molti i punti da chiarire su quanto accaduto nella capitale turca. A cominciare dalla presenza di ben due attentatori suicidi sull’autobomba della strage, elemento che fa pensare più a una responsabilità islamista che ad attentatori curdi. Questi ultimi, infatti, non hanno mai usato i kamikaze nei loro attentati essendo questa pratica, peraltro tipica dei jihadisti, estranea alla loro cultura e alla tradizionale prassi operativa messa in campo da decenni nella lotta per l’indipendenza dei curdi dalla Turchia.

I rischi della strategia di Erdogan
Ankara, in sostanza sembra nel mirino di due fazioni che si combattono sul terreno in Siria e che hanno scelto la Turchia come nemico comune, tentando di farle pagare a caro prezzo le scelte ambigue e contraddittorie che hanno segnato la politica del presidente Recep Tayyip Erdogan negli ultimi anni.

 Da oltre due anni, infatti, per inseguire il sogno di fare della Turchia lo Stato egemone della regione, le autorità di Ankara hanno appoggiato gli islamisti siriani nel tentativo di abbattere il regime di Bashar Al Assad, un tentativo finora frustrato dalla resistenza inaspettata delle milizie lealiste e soprattutto dall’appoggio militare fornito a Damasco da Russia e Iran. Quando il sostegno a ISIS si è fatto politicamente imbarazzante, Erdogan, su pressione degli Stati Uniti, ha dovuto interrompere le forniture di armi e di denaro al Califfato, provocandone la risentita reazione.

 Lo Stato Islamico ha risposto al voltafaccia di Ankara con l’unico strumento di pressione disponibile: il terrorismo. Da qui la serie di attentati con l’uso dei kamikaze che hanno insanguinato la Turchia nell’ultimo anno. Nello stesso tempo, per mantenere una parvenza di controllo sulle operazioni in Siria, le forze armate turche hanno ripreso a bombardare le postazioni degli indipendentisti curdi che contrastano con successo l’avanzata degli islamisti in Siria e Iraq. Anche i curdi hanno reagito portando a modo loro la guerra in territorio turco, con attentati dinamitardi e attacchi armati quasi sempre rivolti contro le forze armate turche.

I “freedom fighters” curdi sono appoggiati dagli Sati Uniti, che usano la base aerea turca di Incirlik per le operazioni di bombardamento anti-ISIS. Insomma, Erdogan sembra essersi fatto nemici su tutto il fronte siriano mettendo in imbarazzo gli alleati americani e le sue iniziative regionali hanno perso qualsiasi lucidità strategica mentre hanno provocato contraccolpi sanguinosi sul fronte interno dei quali l’attentato di ieri è l’ultima dimostrazione.

 Anche le reazioni immediate dopo l’attentato di Kizilay Square sembrano piuttosto confuse. La prima reazione della magistratura è stata infatti di imporre limiti e censure all’uso dei social network in tutto il Paese, per impedire la diffusione di fotografie dell’attentato. Se non è chiara l’efficacia antiterrorismo della censura su Facebook o su Twitter, è invece evidente che le autorità turche ritengono che la libertà di espressione, in una nazione in cui i giornalisti rischiano quotidianamente la galera se osano criticare il governo, rappresenti un pericolo per un sistema di potere che sta assumendo sempre di più le caratteristiche di un regime autoritario.

 Il governo di Ankara è impegnato in un delicato confronto con l’Europa sul tema dei migranti e sulla richiesta di adesione all’UE. Se la reazione agli attentati dovesse tradursi in ulteriori limitazioni per gli spazi di democrazia interna le speranze di Erdogan di portare la Turchia in Europa tornerebbero in alto mare, segnando il definitivo fallimento di una strategia politica che fino a oggi è riuscita soltanto a isolare Ankara dai suoi alleati e ad appannare il sogno kemalista di fare della Turchia uno stato moderno, laico e democratico.

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OZAN KOSE/AFP/Getty Images)
Una parente di una delle vittime dell'attentato di Ankara ne aspetta il corpo - 14 marzo 2016

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Alfredo Mantici