La nuova politica economica di Obama
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La nuova politica economica di Obama

Dagli accordi di libero scambio per favorire la ripresa e competere con la Cina il focus s'è spostato all'innalzamento del salario minimo: i perché del cambio di rotta

Barack Obama puntava forte sugli accordi di libero scambio e sull’abbattimento delle barriere doganali, quando la discussione a Washington era dominata dalla necessità della ripresa economica. Era l’Obama adepto del libero mercato e sostenitore dei regimi concorrenziali a parlare, quello che a giugno ha annunciato i negoziati con l’Unione Europea per forgiare una partnership transatlantica e che il prossimo aprile, nel suo viaggio asiatico, vorrebbe chiudere un analogo accordo di libero scambio in versione orientale.

Dopo la grande abbuffata mercatista, i progetti commerciali sono stati chiusi in un cassetto della Casa Bianca per ragioni squisitamente politiche, visto che la discussione si è spostata dalla crescita alle diseguaglianza economiche e il partito democratico ha riordinato di conseguenza le sue priorità. Il leader democratico del Senato, Harry Reid, ha annunciato che non sosterrà il disegno di legge bipartisan che avrebbe creato una “corsia rapida” al Congresso per gli accordi commerciali. Lo stesso ha fatto il capo dei democratici alla Camera, Nancy Pelosi. Improvvisamente le aree di libero scambio non piacciono più alla sinistra che le aveva lanciate come ricetta per agevolare l’uscita dalla depressione.

Ora gli accordi che Obama aveva lanciato con entusiasmo vengono guardati in modo torvo dalla sinistra, che teme l’ascesa di una corrente radicale (Bill de Blasio a New York è l’esempio lampante) che vede la globalizzazione come la sentina di tutti i mali. Tutto ciò che va in quella direzione è fonte di sospetto, e la congiuntura politica del momento a sinistra suggerisce di rimandare il problema. Obama conosce bene l’arte del lancio del sasso per poi togliere la mano. Da candidato alla Casa Bianca aveva parlato di un rinnovamento del Nafta (il trattato commerciale che lega Stati Uniti, Canada e Messico), quando è diventato presidente se n’è completamente dimenticato. Lo stesso sta succedendo per i trattati commerciali con Europa e Asia.

Nella situazione attuale il presidente deve farsi sentire intorno al groviglio della giustizia sociale per coprirsi a sinistra, dunque parla con più trasporto di innalzamento del salario minimo che di competizione con la Cina. Nel suo partito sono molti a essere convinti che l’origine della sperequazione che la Casa Bianca sta combattendo sia proprio nella concorrenza sbrigliata a livello globale. Il prudente Obama, raffinato conoscitore dei calcoli di palazzo, silenziosamente congela i progetti lanciati con tanto ardore per vellicare le voglie del partito, in attesa delle elezioni di medio termine a novembre in cui – dicono gli strateghi democratici – sarà la diseguaglianza economica, non l’apertura commerciale, a permettere ai democratici di difendersi dall’assalto repubblicano.

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Mattia Ferraresi