Obama e il giallo diplomatico tra Ankara e Tel Aviv
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Obama e il giallo diplomatico tra Ankara e Tel Aviv

Il presidente vuole un blocco unito in Medio Oriente contro la Siria, ma Israele e Turchia dimostrano di inseguire altri obiettivi

Nei giorni in cui le diplomazie internazionali mostrano tutti i propri limiti - meglio non soffermarsi sul caso dei Marò in India – c’è una questione di cogente attualità che merita di essere affrontata e che riguarda i rapporti Israele-Turchia-Stati Uniti: le “scuse ufficiali” fatte dal governo israeliano a quello turco per la vicenda del 2010 in relazione all’incidente della Freedom Flottilla (quando attivisti pro-palestina tentarono di violare il blocco di Gaza e l’esercito israeliano rispose con la forza). La questione, legata a doppio nodo a Barack Obama e alla sua idea di guerra in Siria, ha creato un piccolo giallo. Vediamo perché.

Gli organi di stampa mediorientali in questi ultimi giorni riportano le scuse ufficiali fatte dal governo israeliano a quello turco per la vicenda della Freedom Flottilla avvenuta il 31 maggio 2010, quando soldati israeliani uccisero nove attivisti turchi pro-palestinesi i quali, a bordo della Mavi Marmara, tentarono di forzare il blocco di Gaza (anche in questo caso, si trattava in acque internazionali) per portare aiuti umanitari.

Le scuse sarebbero arrivate da Israele nel corso di una telefonata fra i leader Netanyahu e Erdogan, fatta su pressione del presidente americano Obama, proprio pochi minuti prima che quest’ultimo si imbarcasse sull’Air Force One per fare tappa ad Amman. Alcune fonti parlano addirittura della volontà manifestata da Israele di risarcire le famiglie delle vittime turche. E Washington ha colto la palla al balzo, salutando questo fatto come un’effettiva “riconciliazione tra i due Paesi”, come riporta un comunicato rilasciato dalla Casa Bianca.

Il giallo della telefonata
Ma qui sta il giallo: il riferimento che appare nella dichiarazione resa dall’ufficio del premier israeliano circa una normalizzazione dei rapporti bilaterali (che comprende l’accredito degli ambasciatori e la cancellazione delle iniziative legali contro i militari dello Stato ebraico) è del tutto assente dal comunicato pubblicato sul sito del Ministero degli Esteri di Tel Aviv. E non si fa alcun riferimento neppure alle scuse di Netanyahu ad Erdogan. Mentre l'ufficio del premier turco si limita a confermare che Erdogan avrebbe accettato le scuse del suo collega israeliano e che le misure restrittive imposte alla Striscia di Gaza sarebbero state rimosse il giorno stesso.

Eppure, i media israeliani riportano il rifiuto netto di Netanyahu alla richiesta di Erdogan di rimuovere il blocco di Gaza e le autorità israeliane hanno anzi già chiuso i valichi di Kerem Shalom e di Erez (seppur quest’ultimo parzialmente) dopo il lancio da Gaza di quattro razzi caduti nel Neghev israeliano lo scorso 21 marzo. A ribadire il concetto ci ha poi pensato il ministro della Difesa israeliano, Moshe Ya'alon, il quale ha sottolineato che la chiusura “resterà in vigore finché non saranno ripristinate le condizioni di sicurezza”.

Cosa è accaduto veramente?

Si ha così la sensazione che, non senza difficoltà, Barack Obama stia tentando di mettere dalla stessa parte i suoi alleati, in vista non solo di un possibile attacco NATO in Siria ma anche in ragione della volontà di formare un blocco granitico e solidale che svolga una funzione contenitiva, nel caso in cui tutto degenerasse.

A questo sarebbe servita la telefonata imposta obtorto collo a Netanyahu da parte di Obama, e forse anche la decisione di queste ultime ore del presidente americano di togliere alla CIA l’utilizzo dei droni per riconsegnarli al Pentagono, in vista di un loro utilizzo immediato nello scenario siriano, bypassando così le perplessità dell’ONU.

Pare però che Israele (che non fa parte nella NATO) non abbia alcuna intenzione di seguire l’alleato americano - nonostante le dichiarazioni rassicuranti di Shimon Peres al segretario generale della NATO Rasmussen di alcuni giorni fa - preferendo agire di testa propria e non escludendo neanche un attacco all’Iran che Washington non vuole ma che Tel Aviv pianifica da tempo.

Neanche la Turchia vuole le mani legate in caso succedesse l’imprevedibile. Già, perché l’incognita Siria pesa non poco sul futuro mondiale e lo scoppio di una guerra nella regione potrebbe essere l’occasione (e la scusa) per un redde rationem che sia Israele sia la Turchia - ciascuno per il proprio interesse - aspettano da tempo. Il rischio di questa soluzione è però quello del generare un pericolosissimo “tutti contro tutti”. Barack Obama lo sa bene e pensa ragionevolmente: si può andare alla guerra in ordine sparso?

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Luciano Tirinnanzi