Le nuove cortine di ferro
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Le nuove cortine di ferro

Ai tempi dell’Isis sul pianeta stanno sorgendo ulteriori barriere, che vanno dalla Mauritania a Timor Est. E che si insinuano anche nelle nostre città

Di Vittorio Emanuele Parsi *

A quasi 25 anni dalla caduta del Muro (quello per antonomasia), una nuova, invisibile, ma persino più terribile barriera sembra prendere il posto di quella «cortina di ferro» evocata per la prima volta da Winston Churchill nel famoso discorso tenuto all’Università di Fordham, il 5 marzo 1946. Contrariamente a quella che caratterizzò la Guerra fredda, la nuova cortina non serve a racchiudere i sudditi recalcitranti del dispotismo comunista, quanto piuttosto a voler cingere d’assedio l’Occidente e i suoi cittadini. Esattamente come avveniva ai tempi dell’Unione Sovietica, però, attraversare il nuovo muro, anche inconsapevolmente, può essere letale.
Il suo tracciato non è definito una volta per tutte, ma è mobile e proprio per questo ancora più insidioso. Passa per Mosul in Iraq e per Raqqa in Siria; per i monti dell’Atlante algerino e per la penisola del Sinai; per i sobborghi di Tripoli in Libia e per Arsal, in Libano; per la Tribal Region del Pakistan e per le valli afghane; per la Nigeria settentrionale e per la Somalia. I seguaci e gli emuli dell’esaltato «califfo» al Baghdadi hanno dichiarato la loro personale Guerra santa a tutto ciò che l’Occidente rappresenta, in termini di laicità, parità di genere e diritti individuali e sono pronti a colpire i suoi cittadini ovunque sia possibile, a cominciare evidentemente dai territori che controllano o nei quali possono muoversi più indisturbati. Ma anche nelle nostre città, se e quando sarà possibile, magari servendosi delle centinaia di jihadisti con passaporto occidentale che prima o poi faranno ritorno alle loro case.

Com’è noto, l’Occidente non è stato il loro bersaglio primario, e probabilmente anche adesso non costituisce il target principale della loro azione. Il loro scopo è innanzitutto la «purificazione» (col ferro, col fuoco e col sangue) del territorio che controllano: quindi la sottomissione violenta dei sunniti e l’espulsione o il massacro di sciiti, yazidi, alawiti, cristiani, zoroastriani o drusi. Ma l’Occidente si è frapposto a questo disegno aberrante, e così facendo è entrato nel mirino dello Stato islamico e di tutti quelli che ne traggono ispirazione. Morte agli infedeli, dunque, ovunque essi siano: per ora a sud e a est del Mediterraneo, ma appena possibile anche a nord e oltre Atlantico, nelle nostre città e nelle metropoli nordamericane. Al di là del Pacifico, in Australia, proprio due settimane fa è stato sventato appena in tempo un complotto che mirava a realizzare sgozzamenti casuali per le strade di Brisbane e Sydney. E qualcuno forse ricorderà il caso di Lee Rigby, il caporale della Royal Artillery ammazzato a colpi di machete in una via di Londra il 22 maggio 2013 da due fanatici nigeriani: un campanello d’allarme forse sottovalutato. I muri servono per rinchiudere, separare, segregare. Assolvono una funzione fisica e psicologica, e si rafforzano a vicenda.


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Il «loro muro» deve ricordare a noi, «arroganti occidentali» che pretendiamo di attraversare senza limiti questo «mondo piatto» (per riprendere l’efficace immagine di Alan Friedman), con le nostre idee che riteniamo universali e i nostri prodotti globali, o anche solo con la nostra curiosità, magari per scalarne le vette, come Hervé Gourdel, la guida alpina francese sgozzata la settimana scorsa in Algeria. E il «nostro muro», quello che rischiamo prima o poi di ergere intorno a noi, nell’illusione di poterci proteggere senza affrontare il nemico a viso aperto, e così invece preparandoci a identificare il prossimo nemico dentro le mura cittadine.

È la nemesi del mondo globale, ma anche il rifiuto di ogni meticciamento e di qualunque integrazione. E se tutto questo, in Occidente, provoca islamofobia tanto di guadagnato: sarà ancora più facile sostenere che le operazioni aeree in corso in Siria e in Iraq sono una guerra contro l’Islam… Così il mondo, che credevamo si stesse rimpicciolendo dopo la fine della Guerra fredda, torna a farsi sconfinato.Con una quantità crescente di individui che si sente costretta, racchiusa, confinata dentro muri che non può infrangere perché invisibili, ma non per questo meno perentori. Che ognuno resti invece chiuso dentro la sua città, il suo ghetto, identificato da un’appartenenza ascritta, «segnato» e magari prima o poi identificabile, «lo straniero», il «barbaro», il takfir: questo è il messaggio più subdolo e pericoloso dei fanatici dello Stato islamico, perché rischia di alimentare quell’intolleranza violenta e distruttiva di cui il loro progetto è costruito, di renderci più simili a loro e accelerare la fine di quel mondo di laicità, libertà individuale, privo di confini invalicabili che ci fa «occidentali». 


* Ordinario di relazioni internazionali all'Università cattolica di Milano
 

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