Non prendeteci in giro con la stabilità: sono solo ribaltoni
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Non prendeteci in giro con la stabilità: sono solo ribaltoni

Napolitano non può non capire che, dopo aver aiutato (giustamente) la creazione delle larghe intese, ora deve favorire il ritorno al voto. L'articolo di Giuliano Ferrara

Capisco le riserve che un vecchio comunista come Giorgio Napolitano può avere sulla stagione di un Matteo Renzi. Il giovanotto è più esperto e responsabile di quanto non appaia, ma non c’è niente da fare: agli occhi di noi vecchi sembra sempre che indossi un paio di calzoni corti.

Ed è anche vero che un riformista e modernizzatore della tradizione comunista, che ha incominciato a uscire dalla prigione dell’ideologia di classe e a entrare in una dimensione di socialismo europeo proprio sulle questioni del mercato comune e del progetto di Unione, non può non avere un’inclinazione per un tipino come Enrico Letta: è il nipote giusto, è l’europeista giusto, offre quella tranquillità e rassicurazione che gli americani cattivi del Wall Street Journal hanno ribattezzato «la stabilità di un cimitero» ma che sembrano fatte apposta per consentire una vita non caotica delle istituzioni, magari in un regime a bassa intensità politica, con un andazzo da vice Monti. E pazienza per l’impeachment invocato dai disordinati Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, per il referendum antieuro e altre cose che nella mente del vecchio e sensato capo dello Stato debbono sembrare semplicemente corbellerie.
Però Napolitano non può non capire che da levatrice di una soluzione politica nel nome del principio di realtà adesso rischia di farsi secondino di un’Italia prigioniera, brutto e ingrato ruolo per un galantuomo come lui.

Si dirà: ma ci sono state le elezioni politiche, non hanno dato risultato di maggioranza certa, e allora che volete? Che volete? È semplice. Un conto è il governo di larga coalizione con lo shock della pacificazione tra nemici di un ciclo ventennale, per l’appunto la soluzione postelettorale sostenuta dal Quirinale. Ma questa poi è svanita dopo la sentenza Esposito contro Silvio Berlusconi, e in seguito alla sua gestione parlamentare e politica, con la cacciata del principale alleato dal Senato a mezzo di una frettolosa crociata punitiva.

Pochi valorosi come Luciano Violante e altri amici di Napolitano hanno cercato di indurre la sinistra a sottrarvisi, ma hanno perso, e Napolitano con loro. La crociata ha liberato la Terrasanta dal feroce «Caimano» con mezzi alla fine spicci e brutali, determinando un passaggio all’opposizione e una scissione senza voti popolari nel Pdl, la nascita di una piccola coalizione e di una maggioranza residuale.

Può il Quirinale non prendere atto della nuova situazione? Può limitarsi a un protocollo di verifica parlamentare, una «quasi crisi» degna dei vecchi, sputtanati rituali repubblicani? Secondo me, no. È peggio che un delitto, è un errore politico. Per tre motivi principali. Il primo riguarda la salute del Paese. Enrico Letta è forse pieno di buone intenzioni, ma non può garantire la cura. Una maggioranza raccogliticcia, esposta ai venti di opposizioni populiste forti e all’insofferenza di un Partito democratico targato Renzi, con in più un’insufficienza toracica evidente anche nella bocciatura europea della finanziaria di Fabrizio Saccomanni, non farà grandi e radicali riforme, non sarà in grado di avere una voce forte e chiara in Europa. Altro che retorica del «semestre europeo» e della presidenza italiana.

Al difetto di legittimazione politica non si rimedia tanto facilmente. Eravamo in pochi contrari all’esperimento tecnocratico e favorevoli alle elezioni sotto la neve nel novembre del 2011; ma con una base di legittimazione seria, con un Mario Monti veramente tecnico, qualcosa di serio si è combinato e un nuovo clima, fino alla disastrosa esperienza politica del senatore a vita, si era determinato. Si può perfino depoliticizzare la democrazia in nome dei numeri d’emergenza di una crisi finanziaria, ma con un accordo largo e in un clima di fair play: oggi mancano l’uno e l’altro, e il governo che ne risulta è residuale, fragile, malaticcio.

Il secondo motivo, caro presidente Napolitano, è proprio Matteo Renzi. Se ne può diffidare, d’accordo; si può cercare di ingabbiarlo come il partito di Letta e di Angelino Alfano cercherà di fare trovandosi alleati compiacenti. Ma quel sindaco è un simbolo: si decide come vuole la base elettorale, sia quando si debba fare un primo cittadino a Firenze sia quando si debba orientare per un verso o per l’altro, con una scelta politica di sovranità, il Paese intero. Con Renzi che monta a cavallo, l’Italia immobile risulta un Paese prigioniero della nomenclatura conservatrice. E un presidente rieletto, di età venerabile, ha il dovere di essere pertiniano, di trovare un suo momento di rottura maggioritaria e popolare, con nuove elezioni, dopo avere bene operato nel senso della ricomposizione.

Il terzo motivo è che il Paese deve essere liberato dalla paura. Forse una nuova legge elettorale maggioritaria, che garantisca un governo dotato di vera legittimazione politica, si può fare in breve. Ma anche se non lo si potesse fare, perché le mura del carcere di nomenclatura sono ben guardate in Parlamento, bisogna ricordare che solo una circostanza straordinaria ha impedito che scattasse una maggioranza di governo effettiva nelle due Camere, l’ultima volta che si è votato. La legge elettorale è insieme un problema e un alibi. Di fronte a un governo che promette rinvii e mezze riforme, proibire agli italiani di esprimersi secondo la regola che c’è è un non senso, un atto di meschinità politica.

La Spagna che ha votato e ha fatto riforme fino a ieri impensabili sta uscendo dalla recessione, piena di drammatici problemi com’è, a partire da una disoccupazione doppia della nostra, ma anche finalmente ricca di uno slancio ritrovato. Lo slancio italiano senza un governo eletto, in una logica rancorosa di ribaltoni e di manovre partitiche e parlamentari, è un’illusione pericolosa. Napolitano non può non saperlo e non sentirsi pienamente responsabile del ricorso giusto, regolare, non traumatico, all’autogoverno dei cittadini.

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Giuliano Ferrara