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EPA/Kai Foersterling
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Noi catalani e l'impossibilità di sentirci spagnoli

Il primo ottobre il referendum per l'indipendenza della Catalogna. Il premier Rajoy vuole impedire la consultazione. Ma i catalani resistono. Ecco perché

UPDATE: Questo articolo è stato pubblicato sul numero 40 di Panorama in edicola da giovedì 21 settembre prima degli arresti da parte della Guardia Civil spagnola a Barcellona. 

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A Barcellona c'è un quartiere che ha preso il posto delle Ramblas e della Sagrada Familia nel cuore degli indipendentisti. È il Born. Nella Plaça del Comercial, su un'asta alta 1714 centimetri, sventola una gigantesca bandiera della Catalogna: quattro fasce rosse su fondo oro. L'altezza non è un capriccio: nel 1714 le truppe spagnole misero fine all'autogoverno cittadino.

La Catalogna si è sempre sentita diversa dal resto della Spagna. Perché si parla il catalano, perché è più ricca e perché Barcellona è più europea di Madrid. Il primo ottobre il governatore Carles Puidgemont ha convocato un referendum per sancire la fine di una convivenza lunga 500 anni, dalla nascita del regno di Spagna. Un referendum che il premier spagnolo Mariano Rajoy è pronto a impedire a ogni costo.

Eppure nel Born i palazzi sono avvolti da bandiere e striscioni a favore della secessione. Si leggono parole come repubblica e indipendenza, mai referendum. È proibita ogni tipo di pubblicità della consultazione, che è stata vietata dalla Corte costituzionale. Sempre piena di turisti, invasa da Airbnb, offesa dal terrorismo, Barcellona si prepara all'inevitabile scontro. La Catalogna ha smesso di obbedire agli ordini di Madrid. E almeno 700 sindaci secessionisti sono disposti a finire in carcere pur di aprire i seggi.

Il sindaco disobbediente

Uno di loro è Joan Rabasseda, sindaco di Arenys de Munt. Ha già firmato il decreto per cedere gli spazi municipali, pur sapendo che sarà processato per abuso di potere insieme agli altri sindaci disobbedienti. "Adesso minacciano di tagliarci la luce. È ridicolo. Vogliono arrestarci tutti?".

Arenys, un paese di 8 mila abitanti a un'ora da Barcellona, è un simbolo dell'indipendentismo. L'idea del referendum è nata qui. Nel 2009 l'allora sindaco decise di tirar fuori le urne e chiedere ai suoi concittadini se volevano una Catalogna "indipendente, democratica e integrata nell'Unione Europea". Vinse il sì con il 96 per cento. "Fu una consultazione amatoriale, ma ruppe un tabù" racconta Rabasseda.

Ancora non è chiaro invece cosa farà Ada Colau. La sindaca di Barcellona, eletta nelle file di Podemos, si barcamena. A parole sostiene i sindaci ribelli, ma ribadisce che nessun dipendente municipale parteciperà al referendum illegale. Perché per lei significherebbe chiudere la sua carriera politica.

L'economia catalana

La Catalogna è la regione più ricca della Spagna, eppure dipende dai finanziamenti di Madrid per evitare la bancarotta. In cinque anni ha ricevuto 67 miliardi di euro di aiuti straordinari. La crisi è finita nel 2013, però i conti pubblici catalani sono ancora in rosso. "Per ogni euro di tasse che paghiamo allo Stato centrale, in Catalogna ritornano appena 60 centesimi. Se potessimo gestirci da soli avremmo un rating favoloso".

Jauma Ventura, professore di economia all'Università Pompeu Fabra di Barcellona è convinto che la repubblica di Catalogna non sarebbe uno Stato fallito. "Abbiamo più abitanti della Svizzera, un forte settore turistico e una solida rete di piccole e medie aziende. Potremmo sopravvivere fuori dall'Ue con accordi commerciali, come la Norvegia o come Londra post Brexit". Un dottorato a Harvard e 15 anni di docenza al Mit di Boston, Ventura racconta che è accolto con entusiasmo quando è invitato dalle associazioni imprenditoriali locali a parlare di economia e indipendenza. "Certo, ci sono dubbie preoccupazioni, ma la fuga di capitali di cui parlano i giornali non esiste. La gente vuole votare. Potrebbe vincere il no, ma avremmo comunque esercitato un nostro diritto".

Miquel Molina è il condirettore de La Vanguardia. Il quotidiano più autorevole della Catalogna pubblica ogni giorno due edizioni dello stesso giornale: una in spagnolo, l'altra in catalano. "Da anni La Vanguardia è a favore del diritto di scelta, ma non con uno strappo alla legalità".

C'è il rischio, dice Molina, di finire come il Belgio, con due comunità separate e incapaci di dialogare.

La storia dell'indipendenza cercata

La situazione precipitò nel 2010, quando il Tribunale costituzionale bocciò l'estatut (lo statuto regionale con ampie concessioni all'autogoverno) già approvato dal Parlamento spagnolo. Migliaia di persone scesero in piazza per chiedere l'indipendenza. Nel 2012 ci fu l'ultimo tentativo di accordo per migliorare il finanziamento della Catalogna. Ma il premier Rajoy obiettò che c'era la crisi. "Siamo a favore di una terza via" spiega Molina, "un accordo con la Spagna per un referendum che contenga tra le opzioni l'autonomia finanziaria e l'esclusività di competenze come sanità, cultura e economia. Il problema è che nessuna delle due parti ha una proposta su cosa fare dopo il primo ottobre".

Nel 2014 la Spagna ha tollerato un referendum organizzato presso centri culturali dalla società civile. Stavolta è differente. Il governatore Puigdemont minaccia la dichiarazione unilaterale di indipendenza in caso di vittoria, anche con una partecipazione inferiore al 50 per cento della popolazione. Già nel luglio 2016 il Tribunale Costituzionale aveva avvertito la Catalogna che l'unità della Spagna non poteva essere messa in discussione.

Lo scorso 6 settembre il Parlament di Barcellona ha reso nota la convocazione del referendum sul bollettino ufficiale della regione, contro la volontà dei giuristi dell'assemblea.

L'opposizione di Madrid

A quel punto la macchina della giustizia si è messa in moto da sola. "Il referendum non si farà. La legge ci consente degli strumenti che non vogliamo arrivare a usare. Spero non ci costringano" ha messo in guardia il premier Mariano Rajoy.

Dietro di lui, compatti, i principali partiti spagnoli: il Partito socialista e Ciudadanos. Per la prima volta da anni, governo e opposizione sono uniti. Il primo ministro Mariano Rajoy si trova in una posizione molto difficile. Deve far rispettare la legge di fronte a una giunta regionale in aperta disobbedienza alle leggi, ma qualsiasi sua mossa falsa rischia di trasformare gli indipendentisti in martiri della libertà.

In ballo c'è la sospensione dell'autonomia regionale e l'arresto di praticamente mezzo parlamento catalano. Una decisione gravissima con conseguenze incalcolabili. Per il momento Rajoy si è limitato a commissariare i conti correnti della regione: ogni spesa dovrà ricevere l'ok di Madrid. Il movimento catalanista ha dato prova di grande civiltà.

Da cinque anni mobilita almeno un milione di persone per la Diada dell'11 di settembre, la festa nazionale della Catalogna, senza che sia mai stata sfasciata una vetrina. Eppure c'è il timore che la violenza possa fare la sua comparsa ben prima del primo ottobre, quando potrebbero esserci tafferugli tra polizia e sostenitori del referendum. Il ricordo del conflitto armato nei Paesi Baschi è ancora troppo vicino: 820 persone assassinate dall'Eta in nome dell'indipendenza. "Per ora incidenti gravi non ci sono stati, ma tra gli amici o in famiglia si evita il tema per non discutere.

A soffrire le peggiori minacce sono i sindaci che si rifiutano di partecipare al referendum" denuncia Sònia Sierra, deputata regionale di Ciudadanos. Il suo è il secondo partito nel Parlament, con più voti dei socialisti, dei popolari e di Podemos - i partiti di Madrid. "Gli indipendentisti parlano di democrazia, ma si comportano come se lo stato di diritto non esistesse. Hanno convocato un referendum sapendo che era incostituzionale. Ora si rifiutano di obbedire ai giudici e chiedono ai cittadini di fare lo stesso, esponendoli a seri problemi giudiziari". "Rischiamo il carcere e pene economiche molto dure, ne siamo coscienti, tuttavia nessuno si sfilerà all'ultimo minuto".

A parlare è Pau González Fernández, 31 anni di L'Hospitalet, una città di 300mila abitanti alle porte di Barcellona. Dal suo cognome si capisce che è un discendente di emigrati venuti da altre parti della Spagna. A casa parla in catalano, con i nonni in spagnolo. Eppure dice di essere sempre stato indipendentista e di sinistra. Il suo ultimo contratto di lavoro è finito a maggio. Da allora ha smesso di cercare per concentrarsi sul referendum. Si sente deluso e abbandonato dall'Europa, che non sta facendo niente per fermare quella che chiama "la regressione democratica della Spagna".

Il riferimento è ai provvedimenti di giudicie polizia per far rispettare la legalità. "Alternative? Solo con Podemos al governo, che è l'unico partito che ci rispetta" dice Pau. Prima di prendere il bus in direzione Tarragona per l'apertura della campagna elettorale, spiega perché l'indipendentismo ha affascinato la società catalana. "Ha offerto una risposta a chi voleva un cambiamento, ma non sapeva bene quale fosse. Abbiamo dimostrato che non siamo quattro radicali. Dietro di noi c'è un intero Paese".

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Giulio Maria Piantadosi