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Myanmar, la persecuzione dei cristiani

Oltre alla minoranza musulmana Rohingya più di tre milioni di cristiani in Birmania soffrono le violenze e discriminazioni da parte dei militari al potere

Papa Francesco è in Birmania, ribattezzata Myanmar dalla giunta militare nel 1989. Tutti sono concentrati su quella parola che sembra impronunciabile: Rohingya. Ovvero la minoranza musulmana che, secondo le Nazioni Unite, sarebbe l’etnia più perseguitata al mondo. Uomini e donne costretti a vivere in campi sovraffollati, senza il diritto di avere cure mediche e istruzione, che non possono possedere nulla né avere più di due figli. Tutto vero.

I CRISTIANI IN MYANMAR

Ma nella Birmania esistono anche più di tre milioni di cristiani - sia cattolici sia protestanti, convertiti sotto l’influenza dei missionari nei secoli scorsi - e rappresentano la più importante minoranza religiosa in un Paese a grande prevalenza buddista. Gran parte di questi cristiani appartiene ai numerosi gruppi etnici che compongono il complesso mosaico birmano e che sono in conflitto contro le forze governative per l’autonomia.

Sono i Kachin, i Karen, gli Shan e i Chin, perseguitati da quasi sette decenni. Prima dalla sanguinaria dittatura del generale Ne Win - che ha comandato la Birmania per 26 anni, fino al novembre del 1981 - e poi dalla giunta militare che ancora oggi controlla il Paese, nonostante, almeno secondo i governi occidentali, la situazione sarebbe dovuta cambiare definitivamente alla fine del 2015, con la vittoria alle elezioni del National League for Democracy (NLD), il partito guidato dal premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi.

VIOLENZE CONTINUE

Quasi settant’anni di violenze contro le minoranze etniche con l’obiettivo di annientare qualsiasi specificità, nei quali i soldati del Tatmadaw - il potente esercito birmano - hanno bruciato interi villaggi, danneggiato e distrutto numerosi luoghi di culto, ucciso migliaia di civili e costretto centinaia di migliaia di sfollati a rifugiarsi nei sovraffollati campi profughi situati nella vicina Thailandia. Le stesse identiche violenze che hanno subito gli oltre 800mila musulmani Rohingya che, dopo gli attacchi avvenuti a fine agosto, sono scappati in Bangladesh.

UN RAPPORTO SEGNALA GLI ABUSI CONTRO I CRISTIANI

Nell’annuale rapporto della U.S. Commission on International Religious Freedom (Uscrif) del 2017, che segnala i Paesi in cui avvengono le vessazioni più gravi in ambito religioso, nella lista dei «Paesi che destano particolare preoccupazione» c’è anche la Birmania.

La relazione rileva che i cristiani subiscono numerosi soprusi. Tra questi troviamo i trasferimenti obbligati, la sottrazione indebita da parte delle autorità locali di terreni ricchi di risorse naturali, le conversioni forzate, gli attacchi a luoghi di preghiera, la distruzione di cimiteri e il «lavaggio del cervello», che avverrebbe nelle scuole statali.

PREOCCUPAZIONE PER LA SITUAZIONE DEL PAESE

Qualche mese fa il Cardinale Charles Maung Bo, Arcivescovo di Yangon, aveva espresso profonda angoscia per i cristiani delle zone di confine.

«La situazione negli Stati settentrionali Kachin e Shan mi preoccupa. Soprattutto a seguito dell’arresto di due pastori cristiani avvenuto nel febbraio scorso a Mong Ko dopo il bombardamento di una Chiesa cattolica da parte delle truppe governative. Prego per il loro e anche per le migliaia di sfollati e dispersi a causa delle recenti offensive militari nel Paese».

«La Birmania», aveva poi proseguito il religioso, «sta attraversando uno dei momenti più strazianti della sua storia. Il popolo è profondamente addolorato perché sembra si stia ricadendo in giorni oscuri. Il Paese ha bisogno dell’attenzione del mondo per rafforzare il suo fragile percorso di democrazia».

L’APPELLO DEL PAPA

«Il futuro del Myanmar deve essere la pace, una pace fondata sul rispetto della dignità e dei diritti di ogni membro della società, sul rispetto di ogni gruppo etnico e della sua identità, sul rispetto dello stato di diritto e di un ordine democratico che consenta a ciascun individuo e a ogni gruppo, nessuno escluso, di offrire il suo legittimo contributo al bene comune», ha detto ieri il Papa parlando davanti ai rappresentanti del governo, non nominando - almeno direttamente - i musulmani Rohingya.

IL POTERE DEI MILITARI

La pace, però, sembra davvero lontana. Perché la Birmania è ancora sotto scacco dei vecchi generali che hanno insanguinato per decenni il Paese e che sono tutt’oggi interessati soprattutto alle zone etniche, ricche di risorse (petrolio, gas e legname) e cruciali per il passaggio delle merci.

Per questo, prima di andare alle elezioni nel novembre 2015, hanno fatto bene i loro calcoli. La Carta Costituzionale, infatti, non solo riserva ai militari il 25 per cento dei seggi parlamentari indipendentemente dall’esito delle votazioni, ma permette anche loro di controllare il Ministero degli Interni, della Difesa e per gli Affari di Confine.

Inoltre, la vecchia giunta è parte del Consiglio per la Difesa e la Sicurezza Nazionale, che può in qualsiasi momento bloccare o modificare le leggi considerate pericolose per l’unità e la sicurezza della Nazione.

Ma non solo: le Forze armate potrebbero anche assumere completamente il potere avvalendosi della norma costituzionale che consente al capo di Stato maggiore di dichiarare lo stato di emergenza e sciogliere il Parlamento in caso di crisi.

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YE AUNG THU/AFP/Getty Images
Una funzione nella Chiesa cattolica di San Francesco a Hpa-an nello stato di Karen in Myanmar (Birmania), 19 novembre 2017

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