Mi chiamo Trava(glio), faccio il rap quotidiano ma papà non c’entra
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Mi chiamo Trava(glio), faccio il rap quotidiano ma papà non c’entra

«Ho suonato alla festa del Fatto perché ci ha invitati Fabri Fibra, non mio padre. Se ne approfittassi, suonerei ogni sera».

Un certo carisma si intuisce già dallo stile d’entrata. Con il suo cappellino in testa, saluta, sorride, si accomoda sulla «poltrona del boss» (che poi è il suo agente) e chiede: «Oh, raga, posso fumare?».
Alle spalle, in effetti, c’è una buona ora di astinenza, in auto tra Torino e Milano, dove si presenta puntuale all’appuntamento: «Giusto il tempo di uscire da scuola, togliere i libri dall’Eastpak per riempirlo con birre e patatine, ed ero già in viaggio».
Il giovane si chiama Alessandro Travaglio, ha 18 anni, frequenta la quarta liceo linguistico e fa il rapper. Inoltre ha un padre che di nome fa Marco e di mestiere il giornalista: una parentela che dimostra di gestire con maturità superiore a quella superficialmente rilevabile da alcune sue scelte di look. Dopo aver attirato un po’ di attenzione e buona critica per il brano Com’è bello fare il rapper, potrebbe essere che Trava (questo il suo nome d’arte) diventi famoso, quando, a fine anno, uscirà Fuoriclasse, suo primo album, dal titolo consapevolmente provocatorio.

Perché questa strada?
Ho sempre amato la musica. Da bambino, e non ne vado fiero, riuscivo a schiacciare «repeat» a oltranza pure quando mia madre mi piazzava davanti allo stereo che suonava Claudio Baglioni.

Da ascoltare Baglioni a cantare il rap il passo non è breve...
Sono passato per l’electro house, che amo ballare, e l’hip hop, prima di impazzire per Mondo Marcio, Inoki, Wiz Khalifa e Fabri Fibra, in assoluto il mio idolo.

Fabri Fibra è il tuo mentore?
Due anni fa ho ballato un pezzo di electro dance nel suo video di Tranne te e qualche mese dopo è stato lui a suggerirmi di scrivere. «Ti vedo spinto» mi ha detto. Da lì Com’è bello fare il rapper, che però considero superato dai progressi del nuovo disco.

La leggenda narra che tutto nasca da un incontro, a casa vostra a Torino, fra tuo padre e Fibra.
È vero, lo conobbi in quell’occasione ed ero supergasato. Ciò non toglie che già ballassi electro dance e mi cimentassi col rap.

Perché non hai scelto uno pseudonimo?
Voglio essere me stesso e questo è il mio cognome. Mio padre fa, professionalmente, il giornalista e io sto cercando di fare, professionalmente, il rapper. Mi dispiace solo di avere «hater» (sono i critici sul web, ndr) che si accaniscono con me perché ce l’hanno con lui.

Potrebbe anche succedere il contrario.
Per ora no, visto che io non sono ancora famoso. Comunque, è stato generoso a darmi fiducia e persino qualche consiglio: mio padre è molto preso da queste cose di musica e film.

«Sei già morto e se c’ho voglia vengo fin lassù»: nel tuo primo pezzo è aggressivo. Con chi?
Con un nemico immaginario, in generale chi critica senza approfondire. Comunque non credo che il rap debba essere solo arrabbiato. Nel disco nuovo c’è un brano per mia madre, con un bit che fa pensare al mare. È un viaggio che mi sono fatto immaginando di parlarle e ringraziarla quando avrò svoltato. Anche se doveva essere una sorpresa…

Nessuna canzone per tuo padre?
Per ora non mi ha ispirato. Però forse ha ispirato il 10 in italiano che ho preso oggi. Era il riassunto di un pacco pauroso dal titolo Le colpe dei padri. Se vuoi te lo passo... (la battuta è riferita alla parentela di chi scrive ndr.)

Faccia di tolla. Anche sul palco?
Adoro il live. Quando dici «su le mani» e tutti ti seguono, ti senti il re della serata. È stato super aprire il concerto di Fabri Fibra alla festa del Fatto quotidiano.

Anche un bel privilegio, no?
A dire il vero, l’idea non è stata di mio padre, ma dell’artista stesso e con il gruppo ne siamo stati onorati. Comunque non mi sento un privilegiato: se ne approfittassi, suonerei ogni sera, mentre per ora è capitato poche volte.

Segui la politica?
Ho già votato, ma non mi va di dire per chi. In ogni caso è un tema su cui mi informo poco: non ci capisco niente e per adesso non mi interessa nemmeno come argomento per i miei testi. Certe volte chiedo qualcosa a mio padre, ma lui parte sempre da 200 anni prima per arrivare alla mia domanda. Ci ha educato «al ragionamento» su tutto.

Due tatuaggi: una chiave di violino e una rosa. Che significano?
Della musica abbiamo parlato. La rosa è la mia famiglia: nei petali ci sono le iniziali di Elisa, mia sorella, Isabella, mia madre, e Marco. Grazie a loro ho la possibilità di studiare e fare quello che mi piace.

Un background diverso da quello dei tuoi riferimenti, eccezion fatta, forse, per Gué Pequeno. Siete rap borghesi?
Rispondo per me. Se si riferisce al fatto che ho un passato meno turbolento di idoli come Mondo Marcio, va bene. Ma ci tengo a dire che il mio disco me lo sono finanziato da solo con lavoretti estivi e serate in discoteca.

Hai la fidanzata?
Non più. Una tipa fissa mi porterebbe via troppo tempo. Comunque a me piacciono veramente un sacco le tipe e fortunatamente ne ho tante.

Come farai a gestirle quando diventerà una star?
Se, lo diventerò. Io non do mai nulla per scontato, raga.

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Lucia Scajola

Nata e cresciuta a Imperia, formata tra Milano, Parigi e Londra, lavoro a Panorama dal 2004, dove ho scritto di cronaca, politica e costume, prima di passare al desk. Oggi sono caposervizio della sezione Link del settimanale. Secchiona, curiosa e riservata, sono sempre stata attratta dai retroscena: amo togliere le maschere alle persone e alle cose.

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