Sergio Caputo: "Adesso canto l'amore felice" - L'intervista
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Sergio Caputo: "Adesso canto l'amore felice" - L'intervista

Il cantautore romano ha pubblicato il nuovo album "Pop jazz and love", che presenterà in tre concerti.

Cosa resterà degli anni Ottanta, si domandava Raf in una delle sue canzoni più ispirate. Un decennio ancora oggi controverso, soprattutto dal punto di vita musicale, tra feroci detrattori ed entusiasti seguaci.

Emblematico di quel periodo è l’album Un sabato italiano, indiscusso capolavoro di Sergio Caputo che, dopo aver celebrato lo scorso anno il trentennale del disco con un remake in chiave jazz e con un libro, ritorna oggi nei negozi con il nuovo album Pop jazz and love. Dieci godibili canzoni, di cui nove in inglese e una sola cantata in italiano, che risentono del lungo soggiorno dell’artista romano negli Stati Uniti, dove ha perfezionato uno stile smooth jazz che ricorda le produzioni di George Benson  e di Joe Jackson. Un album che ha l’immediatezza del pop e la raffinatezza del jazz, con piacevoli influenze latin e perfino reggae, in cui non può mancare nei testi la proverbiale ironia di Caputo.

La copertina in bianco e nero ritrae sorridente sua moglie Cristina Zatti, che è anche produttrice esecutiva del disco. I brani di Pop jazz and love saranno presentati dal vivo in tre concerti: il 19 marzo all’Auditorium Parco della Musica di Roma, il 25 marzo alla Salumeria della Musica di Milano e il 15 maggio al Teatro Obihall di Firenze.

Sergio, hai dichiarato che il nuovo album Pop jazz and love “celebra l’amore felice, non quello che finisce”. Come mai questa scelta?

“Intanto perché è un album autobiografico, è un momento molto felice della mia vita dal punto vista sentimentale. Poi perché credo che vada rivalutato l’amore felice in un periodo in cui i rapporti tra uomo e donna stanno attraversando tempi difficili nel nostro paese: ci sono molti conflitti che talvolta sfociano nella violenza fisica. E’ un fenomeno preoccupante, per questo credo che faccia bene parlare dell’amore felice. Da noi questo genere di canzoni è un po’ bistrattato, come se fosse di serie B. Invece quasi tutte le canzoni jazz americane celebrano l’amore, per non parlare poi della bossa nova di Jobim”.

La maggior parte delle canzoni del disco è in inglese. Sono nate così o è una decisione per puntare maggiormente ai mercati esteri?

“Sono nate così, non è stata una scelta volontaria. Alcune frasi mi vengono subito in inglese, fin dai tempi di Sabato italiano. Questa volta, come un torrente in piena, è venuto fuori il disco, un brano dopo l’altro. La naturalezza con la quale sono uscite mi ha fatto pensare che le canzoni dovevano restare in inglese. Ce n’è una sola in italiano, A bazzicare il lungomare, che ho scelto come primo singolo”.

Oggi stiamo assistendo a un fenomeno curioso, per il quale anche musica di largo consumo come quella dei Daft Punk e di Mark Ronson è suonata con strumenti veri, analogici, limitando al minimo l’elettronica. Come mai, secondo te, “dilaga anacronistica la musica di ieri”?

“Credo che non bisogna essere integralisti, la musica è libera e non deve avere troppi paletti. Io ho sempre usato l’elettronica come un mezzo, non come un fine. Se ci pensi, oggi anche alcuni suoni di sintetizzatore sono considerati vintage. C’è un brano del mio nuovo album, Cristina (dedicato alla moglie n.d.r.), dove ci sono delle percussioni fatte con la grattugia e la forchetta, oltre che con un pentolino. Mi piace seguire l’ispirazione del momento, senza chiedermi se è digitale o analogica”.

Nelle canzoni che hai scritto, circa 150, alcune sono diventate simboli di un’epoca. Come è cambiato il tuo rapporto con loro dopo che si sono trasformate in icone generazionali?

“Non è cambiato, le ho identificate, attraverso l’affetto del mio pubblico, come le colonne portanti di come vengo percepito. Quando faccio la scaletta di uno show, per prima cosa faccio la lista dei pezzi che non possono mancare, e da quelli inserisco dei brani diversi. Non è facile, perché devo togliere qualcosa per mettere dell’altro. E’ un po’come montare un film: hai delle scene bellissime, che sei però costretto a eliminare, per mettere altre scene in modo che la storia fuzioni”.

Se oggi dovessi scrivere Sabato italiano, con che cosa "ti pugnalerebbe la radio"?

“Con i talent, con i quali ho un rapporto conflittuale. Li ho visti nascere quando abitavo negli Stati Uniti, dove la gente si è stufata molto presto di questo tipo di intrattenimento. Dai talent si è passati ai programmi di cucina, fino a quelli con gli acrobati e con le porno star. In Italia i talent show sono presi troppo seriamente. Non si può giudicare un artista italiano da come canta Ray Charles e Whitney Houston, ma da come interpreta Uomini soli dei Pooh. Quando escono dai talent show e intraprendono la carriera solista, quasi sempre i brani del loro repertorio sono molto inferiori rispetto a quelli che cantavano davanti alla telecamera”.

Dopo Il Garibaldi innamorato, c’è un altro personaggio storico al quale ti piacerebbe dedicare una canzone?

“Sì, Galileo Galilei. Ha un nome molto musicale, sembra quasi una filastrocca. Inoltre ha dovuto imporre, con una certa fatica, una visione futuribile, che all’epoca non era accettata. Nel mio piccolo mi ci rivedo: anch’io ho cercato di fare una musica diversa rispetto a quella dominante  e continuo a farla anche oggi”.

Se dovessi "mettere giù due righe e fare un quadro della situazione" della musica in Italia, come la descriveresti da un'angolazione americana?

“Sono realtà assai diverse. Negli Usa sono diffuse le radio tematiche: se sei appassionato di country, segui la stazione country. Se ti piace l’hip hop, hai decine di stazioni hip hop solo nella tua zona. Non ti capita di ascoltare D’Angelo(l'artista soul americano, non Nino n.d.r.) seguito da Vasco Rossi, senti solo la musica che ti interessa. Negli Stati Uniti passa molta musica contemporanea,  in Italia di meno, salvo quegli artisti che riempiono gli stadi. Non so perché sia successo questo, o forse sì, ma non credo che porterà nulla di buono per la diffusione della radio e forse chi gestisce i palinsesti non si rende conto che sta camminando sul ciglio di un burrone”.

Di quali “effetti personali” musicali non ti priveresti mai?

“Devo sempre avere una chitarra con me. Ultimamente ho una Danelectro vintage, che avevo preso come chitarra da viaggio e che ora uso come chitarra principale. La userò anche nei prossimi tre concerti di Roma, Milano e Firenze. Inoltre ho sempre qualcosa per registrare, o il mio laptop o l’iPad, con Garage band, un programma con il quale puoi incidere in modo professionale”.

Chi ha influenzato maggiormente il tuo modo di scrivere liriche: Hemingway al Caffè Latino o il Renato Carosone di C'aggia fa with you?

“Probabilmente Hemingway, anche perché scriveva in modo molto semplice, un inglese diretto, mai letterario o complesso. Eppure, attraverso quel tipo di inglese, è riuscito a scrivere delle storie profonde e amate da milioni di persone.”

Hai sempre avuto grande affetto da parte del tuo fedele pubblico, mentre la critica ti ha spesso guardato con sospetto. Come te lo spieghi? E’ una cosa che ti ha ferito o ti basta l’amore dei tuoi fan?

“La critica è rimasta in buona parte ferma agli anni Settanta, mentre mi ha identificato con gli anni Ottanta, che sono sempre stati oggetto di ingiustificati pregiudizi. La musica, in quel decennio, bastava a se stessa, non aveva bisogno di talent show  o di grandi promozioni. Negli anni Ottanta sono usciti gli album più belli di Sade e di Joe Jackson. Gli stessi dischi dei Duran Duran e degli Spandau Ballet erano infintamente superiori al pop che oggi va di moda. Negli ultimi anni, però, si sta muovendo qualcosa e si stanno riscoprendo le canzoni di un periodo ricco di positività e di ottimismo”.

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Gabriele Antonucci