ritorno Kraftwerk
(Peter Boettcher).
Musica

Il ritorno dei Kraftwerk

Suoni, arti visive, giochi di luce, pittura digitale ed effetti tridimensionali. A maggio arriva lo show della band tedesca che 50 anni fa ha inventato la musica elettronica. E ispirato generazioni di giovani e grandi artisti come David Bowie.


l suono della musica di oggi è figlio dei Kraftwerk, di una scintilla geniale scoccata più di 50 anni fa al piano terra in un edificio industriale di Duesseldorf, in Mintropstrasse 16: un loft-magazzino trasformato in sala d’incisione e sperimentazione. Quattro mura spesse, microfoni, sintetizzatori, drum machine e una dozzina di proto computer per inventare la musica del futuro.

I Beatles avevano gli Abbey Road Studios di Londra per incanalare e trasferire su vinile un inestimabile talento, i Kraftwerk uno stanzone grigio e impersonale ribattezzato da loro stessi Kling Klang, all’interno di un complesso industriale asettico nella forma e nel colore. Nessuna linea telefonica e una porta blindata inaccessibile, questi gli stratagemmi dei quattro artisti tedeschi per isolarsi dall’esterno e liberare la creatività.

È pertinente il parallelo con i Fab Four di Liverpool: dopo i Beatles, sono i Kraftwerk la band più rivoluzionaria, che ha trasformato per sempre le regole d’ingaggio del paesaggio sonoro moderno. L’elettronica che pervade le canzoni di oggi, le voci robotiche e filtrate da effetti speciali, il suono sintetico delle percussioni, la musica dei Depeche Mode, dei Daft Punk e dei Joy Division, così come le atmosfere algide delle popstar di questo tempo (vedi Billie Eilish), sono emanazione diretta delle intuizioni della band tedesca.

Che, con due anni di ritardo causa pandemia, presenta in Italia a inizio maggio uno spettacolo straordinario: la summa della loro storia, uno show che è al tempo stesso musica (i due fondatori del gruppo, Ralf Hutter e Florian Schneider hanno studiato al Conservatorio), arti visive, pittura digitale ed esperienza 3D (al pubblico vengono forniti in sala gli appositi occhialini). Palco spoglio, numeri e simboli che «volano» sopra la platea e poi i fantastici quattro, impassibili, costretti in tute di neoprene che si illuminano cambiando colore e tonalità canzone dopo canzone.

Niente strumenti, niente amplificatori, solo quattro console metalliche che contengono tutti i loro «giochi musicali». Giusto per chiarire che i deejay popstar di oggi non hanno inventato proprio nulla… Quello che vedremo dal vivo nelle prossime settimane è il frutto di un concept sviluppato lungo cinque decenni, figlio di un’etica del lavoro che per diversi mesi all’anno si traduce in 10-12 ore al giorno tra le mura del Kling Klang.

Hanno visto il futuro i Kraftwerk, partendo da una condizione particolare, quella di voler creare un sound originale in un Paese, la Germania, che all’inizio degli anni Settanta non aveva una vera scena musicale (se non di estrema nicchia) riconosciuta nel resto del mondo. Iniziarono dal nome in un mondo popolato da gruppi anglofoni e decisero di chiamarsi Kraftwerk, ovvero centrale elettrica. Passarono poi alle sequenze musicali, utilizzando una gamma di accordi distante dalle strutture armoniche delle hit inglesi ed americane, eliminando progressivamente qualsiasi traccia di strumenti a corda tradizionali.

Molta cura fu poi dedicata alla strumentazione elettronica, spesso creata da loro stessi mettendo in connessione tastiere e computer. Ultimo ma fondamentale tassello del quadro: la scelta dell’immagine da veicolare, volutamente antitetica rispetto alle suggestioni hippie e rock and roll. Il risultato di questa ricerca di stile fu un look chic e retro futurista a base di capelli corti, camicie inamidate e cravatta. Quanto bastava perché David Bowie li indicasse alla stampa mondiale come il suo gruppo preferito. Cui dedicò una canzone strumentale, V-2 Schneider, inclusa nel suo album cult, Heroes.

Sapevano e sanno cosa vogliono i Kraftwerk la cui musica è indiscutibilmente un elogio alla tecnologia, non acritico, come raccontano le canzoni del loro album Computer World del 1981, storie di uomini soli che comunicano emozioni, sensazioni e paure via pc ad altri uomini soli. Un’intuizione geniale con 15 anni di anticipo rispetto all’inizio dell’uso su larga scala del World wide web.

Anticipare il futuro e rielaborare a 360 gradi gli stereotipi della cultura musicale americana sono i tratti distintivi dell’ensemble tedesco: basti pensare al concetto di viaggio inteso come trasgressione e libertà in pellicole come Easy Rider o celebrato dai Rolling Stones in Route 66. Tutt’altro film quello che raccontano le note di Autobahn, 22 minuti di musica minimalista dove la guida non è passione sfrenata e velocità mutante, ma una pratica di meditazione, svolta a velocità costante alla ricerca di una simbiosi virtuosa tra uomo e macchina. Loro l’hanno trovata e, alla fine del percorso, sono rimasti umani. Non possono dire altrettanto molte giovani popstar di oggi che, a conti fatti, trascorrono più tempo sui social che in studio di registrazione.

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Gianni Poglio