Febbre Glenn Gould o febbre Bach?
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Febbre Glenn Gould o febbre Bach?

Il 25 settembre saranno 80 anni dalla nascita, il 4 ottobre 30 dalla morte prematura. Mentre si preparano rassegne e convegni, in rete i suoi video sono fra i più cliccati perché adorati dai ragazzi. Riflessione su un artista molto moderno ossessionato dall’amore per un grande del passato

di Leonardo Castellucci

Un fascino distratto e asessuato. Una postura dinoccolata e disarmonica. Un’espressione da irridente Peter Pan. A volte trasandato come un clochard, a volte solo sciatto, soffriva del «grave morbo» della musica come imperativo (l’unico suo reale linguaggio) e rifuggiva i rapporti col mondo, eppure, a 80 anni dalla nascita e a 30 dalla prematura morte, l’impronta di Glenn Gould è sempre più marcata. Le sue interpretazioni pianistiche vanno a ruba e si contano a migliaia i passaggi ogni giorno su Youtube, dove i suoi video (tutti preceduti dalla pubblicità, a riprova del target pingue e giovanile) hanno numeri degni di Lady Gaga. Su di lui escono libri, si girano film d’autore, si organizzano mostre interdisciplinari per meglio indagare questa aliena ma non certo alienata personalità. Perché, se non è mai sparito di scena, raramente Glenn Gould è stato così in scena.

Subito dopo l’esordio su Glenn Herbert Gould, nato a Toronto il 25 settembre 1932, si concentrò l’interesse e si alimentò il dibattito: il ragazzo aveva precocemente imparato i primi rudimenti del piano dalla madre e aveva proseguito gli studi secondo la regola di un piccolo pianista prodigio. È del 1956 la vera consacrazione, che si conferma in due storici episodi. Alla Carnegie Hall, accompagnato da Leonard Bernstein alla direzione dell’Orchestra filarmonica di New York, Gould esegue il Concerto per pianoforte n. 2 di Ludwig van Beethoven e nello stesso periodo incide Le Variazioni Goldberg di Johann Sebastian Bach, complesso capolavoro costruito da un’aria e 32 variazioni che diverranno il brano che per sempre lo identificherà.

Ma quel suo strano modo di suonare, quello staccare ogni nota, quasi volesse tentare di traghettare l’anima di un clavicembalo in quella di un pianoforte, quella volontaria rinuncia a legare le note, quasi fossero tanti suoni isolati che si susseguono come in un infinito scorrere, senza sottolineature, senza variazioni timbriche, senza quel pathos cui tutti erano abituati, affascinano molti e disorientano altrettanti. Gould incurante, forse addirittura soddisfatto di «risvegliare il seriale torpore di certi esecutori», non dà peso alle critiche negative, spesso anche feroci, e non per arroganza giovanile ma perché è dentro un suo tempo, dentro un suono suo, che segue con l’umiltà, l’ossessione e la vocazione di un predestinato.

Anche i suoi gusti musicali sono ristretti e l’interesse per la vastissima letteratura per pianoforte sembra ridursi alla scrittura barocca, un po’ di Domenico Scarlatti, quasi per divertirsi nel gioco delle variazioni, e poi solo Bach, il suo dolce "carnefice". Quando raramente applicherà la personale misura sonora a Wolfgang Amadeus Mozart, Ludwig van Beethoven, Fryderyk Chopin, e perfino ad alcuni compositori moderni come Paul Hindemith, diventerà un pianista strano, forse denunciando il proprio limite e confermando la propria missione. Quella di essere l’esegeta di Bach. Basta osservarlo nei moltissimi filmati pubblicati online, cliccatissimi, in cui esegue una partita, una suite, una fuga, un preludio, un concerto del grande maestro di Eisenach, per capire il rapporto intimo, privatissimo, che aveva con quei suoni, unica fonte di vera gioia per lui, quasi che quel linguaggio sonoro fosse il suo primo nutrimento, panacea a tutte le angosce dell’esistenza. Andatelo a vedere: ogni volta Glenn attacca le dita alla "spina" di Bach e inizia con lui un rapporto che noi possiamo solo osservare con sorpresa, talvolta perfino con un senso di ammirata diversità.

Glenn si siede su uno sgabello bassissimo (costruitogli dal padre) e suona sul suo Steinway Cd.318, solo su quello (tutti gli altri pianoforti per lui sono impossibili) raggomitolandosi su sé con gli occhi in linea con le dita, in una sorta di contrizione sull’altare di Bach, colto da scosse felici del corpo e dal bisogno di accompagnarsi, vibrando con le labbra l’esecuzione e mugolando i passaggi più intensi, come in un mantra fra lui e l’infinito. È estraneo a tutto, quando suona. La gente non gli interessa, l’orchestra e il direttore, quando sono previsti, diventano cornice, agli applausi che seguono risponde con frettolosa educazione, i concerti pubblici lo svuotano, gli sembrano un’inutile esibizione. Lui sa di stare in un suo mondo in cui nessuno può veramente entrare e allora nel 1964, a soli 32 anni, lascia le scene con una frase lapidaria, quasi un addio: "Più passa il tempo, più trovo facile fare a meno delle persone. L’isolamento è la componente indispensabile della felicità umana". Da quel momento non eseguirà più un concerto in pubblico ma si ritirerà in Canada, a vivere in una camera d’albergo insonorizzata per i 18 anni che gli resteranno. Uscirà da lì soltanto per nuove registrazioni o per apparire in programmi televisivi in cui racconterà e suonerà Bach. Il resto sono minimi scampoli di vita privata di cui si conoscono solo notizie riportate o insignificanti illazioni.

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