Bryan Ferry: la recensione di The jazz age
Musica

Bryan Ferry: la recensione di The jazz age

L'album capolavoro di una leggenda della musica inglese

Il suo nome è da sempre legato ai Roxy Music, storico gruppo britannico da lui fondato nel 1971 e che ispireranno il movimento del New Romantic dei primi anni ottanta, sviluppato in seguito dai Duran Duran e dagli Spandau Ballet. Parliamo ovviamente di Bryan Ferry, che a due anni di distanza dal precedente lavoro discografico, torna in studio regalandoci un album magico che ci riporta indietro nel tempo in un battito di ciglia. The Jazz Age, è un delizioso viaggio sonoro tracciato attraverso 13 brani portati al successo dai Roxy Music e dallo stesso Ferry, ma qui riproposti in versione strumentale e con un raffinatissimo arrangiamento jazz tipicamente anni 20.

Iniziamo a battere il piede fin da subito, con una brillante Do The Strand, che sembra uscire dalla band di Nick La Rocca o di Bix Beiderbecke, trainata dal banjo, da un basso tuba e da fiumi di clarinetto e tromba che volteggiano nell'aria. Segue una lenta Love is The Drug eseguita come una marcetta contenente un bell'assolo di sax baritono che contribuisce a colorare il brano con le sue note scure e profonde. Molto ben riuscita la versione di Don't stop The dance, a metà tra il Charleston e il Dixieland. Altra perla che non poteva mancare è Avalon, che dal delicato arrangiamento del 1982 viene qui vestita con una sonorità che strizza l'occhio al bajon, e che vede immancabili i fiati giocare intorno al tema del brano. Slave to love, altro classico dei Roxy Music, è un mix di stili, che vanno dalle sonorità delle big band di Paul Whiteman fino al ritmo sincopato e un po gitano di Django Reinhardt.

Splendida e irresistibile This is Tomorrow, scandita dal ritmo del banjo e del pianoforte che ricorda molto lo stile del grande Louis Armstrong. In pieno stile Cotton Club ritroviamo I Thought che insieme a Virginia Plain ci fa rivedere le atmosfere noir e polverose dell'epoca, dei locali pieni di fumo e di ballerine che scivolano sul palco dell'ultimo spettacolo, al ritmo lento e malinconico di This Island Earth, che chiude il disco. Non ci resta che pagare l'ultimo bicchiere di bourbon, alzare il bavero e andare via.

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Tony Romano