Le mie piccole vittime in nome di Allah
Antonella Palmieri
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Le mie piccole vittime in nome di Allah

Ha militato negli Shabab somali. Ora, dopo aver ucciso, vuole raccontare la sua storia. Di dolore e redenzione

 

Di Antonella Palmieri

«Ho deciso di fuggire dopo aver visto decine di bambini morti, il loro sangue. E le madri che urlavano, straziate. Dopo ciò che avevamo fatto, ho iniziato a piangere. Mi sono dovuto nascondere perché gli Shabaab non accettano che tu pianga, specialmente di fronte ai cadaveri. Se vedono le tue lacrime, ti uccidono. È quella notte che ho deciso di scappare».
Le parole di Alì (il nome è di fantasia, ndr) arrivano attutite dalla kefiah che gli copre il volto davanti all’obiettivo. Alì è stato un terrorista. Racconta la sua storia sul tetto di un vecchio palazzo, nel quartiere musulmano di Nairobi. Parla senza sosta, muovendo mani, rugose come la sua voce. Ha 29 anni, ma ne dimostra dieci in più, come se a ogni omicidio commesso avesse perso anche lui un po’ di vita.


Alì ha ucciso con gli Shabaab in Somalia, un gruppo affiliato ad Al Qaeda che da anni cerca di allargare il suo potere e di imporre la sharia, la legge islamica. Ha ucciso in uno Stato che non era il suo, in una guerra che non gli apparteneva. Come non appartiene alle migliaia di giovani kenyani reclutati negli ultimi anni come kamikaze o assassini negli assalti casa per casa in Somalia, Kenya e Uganda. Paesi, questi ultimi, che dal 2011 hanno mandato truppe in Somalia per «pacificare» la regione, sconfiggere gli Shabaab e restituire molti territori al governo di Mogadiscio.


«Io sono kenyano e la mia famiglia è cattolica» racconta Alì a Panorama «ma non riusciva a darmi nulla. Così scappavo di casa, mi stordivo con i vapori di benzina per strada, con altri ragazzi. Poi a 20 anni ho conosciuto un musulmano. Frequentava una moschea e ho iniziato ad andarci anch’io. Ci davano da mangiare, un tetto, dei vestiti». Alì inizia a studiare arabo e il Corano in una scuola islamica di Eastleight, un quartiere di Nairobi ribattezzato «Little Mogadiscio», dove i muezzin scandiscono le ore della giornata e le donne ondeggiano nei loro lunghi e colorati jilbab che lasciano scoperto il volto. Un giorno gli dicono che deve andare a Mombasa, sulla costa, dove lo aspettano altri mesi di studio.

Era il 2005. Il mondo non aveva ancora sentito parlare degli Shabaab per come li conosciamo oggi. C’erano le Corti islamiche che tentavano di prendere il potere a Mogadiscio, dopo che i «signori della guerra» avevano imperversato nel paese per più di un decennio. E c’era il loro braccio armato, formato dai giovani (gli Al Shabaab, in arabo). Mentre le Corti conquistavano Mogadiscio nel 2006, gli Shabaab davano il via al reclutamento. Fra loro, anche Alì.


«Nel 2006, un giorno mi hanno detto che ero pronto a guadagnare valore nel mio percorso di musulmano» ricorda. «Siamo andati a Mandera, al confine con la Somalia, e ci hanno bendati. Abbiamo passato ore su un camion, poi ci hanno tolto le bende ed eravamo in mezzo al deserto, in Somalia. Uomini armati ci sono venuti incontro, salutandoci. Da quel momento, quella è stata la mia famiglia». Una famiglia spietata, che tutti i giorni uccideva e assaltava villaggi per imporre la sua supremazia e  reclutare ragazzini che in lacrime si univano al gruppo.«Ogni giorno ci parlavano della jihad, del paradiso che ci attendeva...» racconta Alì. «Ho pensato anch’io a diventare suicida. Quando vivi in quelle condizioni non pensi al futuro, alla famiglia. Pensi solo che potrai vedere il paradiso».
Ma per quanto si possa essere bravi a uccidere, gli Shabaab non credono che tu possa essere un buon combattente se non hai moglie e almeno un figlio. «Se muori, ci deve essere qualcuno che porti avanti la jihad e ti vendichi» spiega. Una scia di sangue che passa di padre in figlio. Ad Alì è stata portata una bambina. Non sapeva quanti anni avesse. La piccola diceva di averne nove, forse ne aveva qualcuno in più. Era figlia di uno Shabaab morto in battaglia. «È stata costretta a sposarmi» ammette Alì «e abbiamo avuto una bimba». Non è raro che nel campo ci siano donne. Sono mogli e figlie di combattenti: cucinano, lavano, ed educano le più piccole a essere brave mogli.

Per un anno la vita nel campo è scorsa lenta e ripetitiva, con le uccisioni a ricordare che si stava combattendo una guerra. Poi un giorno la cellula di Alì ha deciso di «punire» un villaggio che non voleva pagare le tasse. Sono arrivati di notte e hanno fatto una strage: in quel momento Alì ha deciso di fuggire. Ha corso tutta la notte ed è arrivato in un villaggio dove ha barattato il kalashnikov con cibo e soldi. Ha pagato un camionista perché lo nascondesse nel suo carico di carbone, ed è arrivato in Kenya.


Sono passati sette anni. Gli Shabaab continuano ad ammazzare. Alì è ancora musulmano, ma combatte una jihad per la pace. Lavora nei quartieri islamici di Nairobi, fra quei giovani emarginati che potrebbero essere nuove leve per gli Shabaab. «Il Corano dice che si deve combattere la jihad e i terroristi utilizzano quelle “sure” (versetti, ndr) per uccidere. Ma quel tempo è passato. Non abbiamo bisogno di fare la guerra, ma di vivere in nome dell’Islam che vuol dire pace. L’unica battaglia che dobbiamo portare avanti è nelle nostre anime».         n
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