I marò due anni fa l'inizio del caos
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I marò due anni fa l'inizio del caos

Il 15 febbraio 2012 gli spari dalla Erica Lexie. Da allora 24 mesi di errori e problemi

Due anni esatti. Due anni, oggi, da quel pomeriggio del 15 febbraio 2012 in cui i marò in servizio antipirateria sulla “Enrica Lexie” aprirono il fuoco sul peschereccio del Kerala “St. Anthony” che si stava pericolosamente avvicinando, uccidendo due pescatori. 

La “Enrica Lexie” era già lontana e in navigazione verso Gibuti, come previsto, quando una telefonata da Mumbai la fece tornare indietro, con l’avallo non solo del comandante e dell’armatore, ma soprattutto (questo fu l’errore drammatico di quelle ore) di quella che viene impersonalmente indicata nelle carte ufficiali come “la catena di comando militare”. Bene, anzi male: da allora, due dei sei marò della “Enrica Lexie” sono entrati nel tritacarne della giustizia e della politica indiane. Prima in carcere e in un albergo nel Kerala, quindi in libertà vigilata a Delhi, nella prigione dorata della nostra ambasciata, “distaccati” presso l’ufficio dell’addetto militare. 

Da due anni, Massimiliano Latorre e Salvatore sono ostaggio del rimpallo di responsabilità e diversità di vedute tra ministeri e uffici giudiziari a Delhi. Il ministero dell’Interno e la NIA, l’FBI indiana che persegue il traffico d’armi e il terrorismo, li vorrebbero perseguire in base al Sua Act, la legge contro pirateria e terroristismo. Il ministero degli Esteri, invece, per chiudere il contenzioso, vorrebbe una soluzione più morbida: un processo per omicidio in base alla legge penale ordinaria. Il punto è che nel primo caso ci sarebbe l’onta dell’uniforme macchiata da un’accusa infamante (con la possibilità, sia pur teorica e remota, della pena di morte per fucilazione). Nel secondo, l’India violerebbe comunque il principio sancito dalla legislazione internazionale sul diritto del Mare per cui quando un reato o presunto reato viene commesso in acque non territoriali (come in questo caso), la giurisdizione è del paese di cui la nave batte la bandiera (l’Italia). Altra violazione: il mancato riconoscimento dell’immunità di funzione dei fucilieri di Marina, che operavano per conto dell’Italia nel quadro di un’operazione antipirateria (quelle acque in effetti sono infestate di pirati) in applicazione di trattati internazionali e di ben due risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Come non bastasse, Latorre e Girone verrebbero giudicati da un tribunale speciale. Tutto si complica per via delle elezioni di aprile-maggio in India, con l’opposizione nazionalista all’attacco del Partito del Congresso dell’“italiana” Sonia Gandhi, e per l’esibizione muscolare di un grande Paese, che però è anche un’ex colonia, nei confronti dell’Europa. Ulteriore complicazione: i legami personali e familiari con l’India del segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, che ha liquidato la vicenda a “disputa bilaterale tra due Stati”. E, peggio, l’irrilevanza certificata dell’Italia, come Paese e come governo, rispetto all’India membro dei potenti Brics nel consesso internazionale. 

A questo si aggiunga, ciliegina scaduta su una torta acida, l’approccio che i governi Monti e poi Letta hanno avuto nei confronti della vicenda. Tutto legale e diplomatico, fatto di scartoffie e norme di linguaggio, ma senza mai assumere una decisione che fosse una (salvo quella, poi rimangiata, di non far rientrare i marò in India dopo un permesso “elettorale”). L’Italia ha oscillato infatti tra l’accettazione di fatto della giurisdizione indiana e la sua contestazione (ma non formale, ovvero nelle sedi internazionali), col risultato che dopo due anni Latorre e Girone sono ancora in attesa di un capo d’imputazione e soltanto ora balena, nell’ultima riunione della “task force marò” a Palazzo Chigi, la possibilità del ricorso all’arbitrato davanti alla Corte internazionale di Giustizia dell’Aja. Ipotesi peregrina, se è vero che l’India ha un suo giudice nella Corte, ma non ha firmato l’arbitrato obbligatorio per cui dovrebbe concordare spontaneamente su un giudizio terzo. 

In attesa della sentenza della Corte Suprema indiana che deve decidere se sarà applicato o no il Sua Act ed eventualmente entro quali limiti, l’unica (velleitaria) speranza dell’Italia è di poter riportare in patria i marò in attesa del processo. Concessione quasi proibitiva per l’India, per via delle prossime elezioni e per il precedente del tormentato rientro dello scorso marzo.  

Dopo Monti e Letta, toccherà a Matteo Renzi affrontare il dossier nel momento forse più caldo e sotto i riflettori dei media. Finora Matteo non ha dichiarato granché sui marò. Ma presto dovrà farlo. Incoraggianti il suo decisionismo e la rete di sintonie internazionali che è riuscito a costruirsi in questi mesi. Ma oggettivamente la situazione si è incancrenita. 

Tutti sanno, alla fine, come dovrebbe concludersi l’affaire: col rientro di Latorre e Girone in Italia, dopo la condanna, per scontare la pena in base a un trattato firmato con l’India nell’agosto 2012 (con la prospettiva della grazia presidenziale). Ma intanto l’Italia avrà perso la faccia, due militari italiani saranno rimasti in balìa della magistratura indiana per tre anni, e chissà quali altre conseguenze nei rapporti bilaterali e nella credibilità multilaterale avremo dovuto sopportare. Tutto per l’ingenuità della “catena di comando militare”, la mancanza di comunicazione tra Difesa ed Esteri, e l’incapacità e irrilevanza di due (e speriamo non tre) successivi governi.

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Marco Ventura

Inviato di guerra e cronista parlamentare de Il Giornale, poi  collaboratore de La Stampa, Epoca, Il Secolo XIX, Radio Radicale, Mediaset e La7, responsabile di uffici stampa istituzionali e autore di  una decina fra saggi e romanzi. L’ultimo  "Hina, questa è la mia vita".  Da "Il Campione e il Bandito" è stata tratta la miniserie con Beppe Fiorello per la Rai vincitrice dell’Oscar Tv 2010 per la migliore  fiction televisiva. Ora è autore di "Virus", trasmissione di Rai 2

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