E l’Italia scoprì il voto postideologico
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E l’Italia scoprì il voto postideologico

Le amministrative hanno dimostrato che il vincolo di appartenenza politica è sostanzialmente scomparso. E che cambiare non vuol dire scegliere automaticamente il candidato più giovane. Insomma, ha vinto la logica dell’andare "contro" l’esistente. Perché, accanto al certificato dell’anagrafe, occorrono idee chiare.

Me lo ricordo bene, Massimo Bitonci, nella sua vita precedente. Ero andato a Cittadella, deliziosa città murata dugentesca del Padovano, dove lui è stato sindaco leghista per dieci anni (2002-2012) per conoscere da vicino l’uomo che dava la casa agli immigrati soltanto se questi dimostravano di avere un lavoro. Al posto di un trucido razzista, trovai un commercialista garbato che mi ricevette in un municipio che sembrava portato lì in volo da una cittadina scandinava, come fecero gli angeli per la Casa Santa di Loreto. A ogni esigenza dei cittadini rispondeva un desk di impiegati gentili: non vidi file e per chi avesse dovuto aspettare c’erano poltroncine sobrie, ma di ottimo gusto nei salottini d’angolo. Un sogno. "Lei farà carriera" gli dissi. Altro che. Approdato in Parlamento, è presidente dei senatori leghisti e dovrà dimettersi perché i padovani lo hanno voluto sindaco dopo 20 anni di una egemonia di sinistra interrotta una sola volta. Il territorio vale più di Roma.

Le amministrative di giugno hanno dimostrato due cose. La prima è che il vincolo di appartenenza ideologica è sostanzialmente scomparso. I comunisti non mangiano più i bambini da un pezzo e hanno per la prima volta un leader che comunista non lo è mai stato. I fascisti non sono più fascisti e Silvio Berlusconi fa ormai il padre nobile: da quando ha lasciato il governo e ha subito una condanna ha perso, insieme col titolo di Cavaliere, anche quello di Caimano. Il glorioso Centro, punto di equilibrio di ogni pozione alchimistica, è stato inghiottito dal nuovo tripolarismo: ancora pochi anni fa controllava un voto su quattro. I cittadini si sentono liberi e se vanno a votare (sempre meno) in genere vogliono il "cambiamento". Talvolta se ne pentono amaramente (i casi di Ignazio Marino a Roma e di Luigi De Magistris a Napoli sono clamorosi), ma gli ultimi ballottaggi hanno confermato che questo vento continua a spirare. Il prossimo sindaco di Parma difficilmente sarà un 5 stelle, ma nemmeno un burocrate della vecchia nomenclatura di partito.

La prima novità porta con sé la seconda: cambiare non significa scegliere sempre il candidato più giovane. Andrea Romizi, protagonista della storica vittoria di Perugia per Forza Italia, ha 35 anni contro i 44 del suo competitore del Pd Wladimiro Boccali. Ma anche Alessandro Cattaneo, il "sindaco più amato d’Italia", uomo immagine della nuova Forza Italia, ha 35 anni e ha dovuto cedere inaspettatamente il passo a Massimo Depaoli che ne ha 54. Filippo Nogarin, l’ingegnere ambientalista che ha conquistato Livorno, ha 44 anni e ha clamorosamente battuto Marco Ruggeri di 39.
È vero che, su 27 capoluoghi al voto, 11 vincitori hanno meno di 45 anni: ma l’età non basta da sola ad assicurare il successo. "Ha vinto la logica del voto contro" mastica amaro Cattaneo. E ha ragione. Silvio Berlusconi aveva 58 anni quando nel 1994 fondò Forza Italia spazzando via 50 anni di vecchia politica. Matteo Renzi oggi ne ha 39 e in pochi mesi ha compiuto lo stesso rinnovamento, dopo aver conquistato Firenze a 34. Occorrono idee chiare, accanto al certificato dell’anagrafe. In città senza bussola, la gente cambia nocchiero. E talvolta ci azzecca.

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Bruno Vespa