Turchia, la vittoria di Erdogan non fa bene alla democrazia
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Turchia, la vittoria di Erdogan non fa bene alla democrazia

Il premier islamico si aggiudica le elezioni locali con più del 45% e promette il pugno di ferro contro i suoi oppositori, definiti dei "terroristi"

Il gran "sultano" Recep Tayyip Erdogan ha vinto la sua ultima battaglia. Nelle elezioni amministrative, un vero e proprio referendum sulla sua tenuta al governo della Turchia, il premier ha preso il 45.6% dei consensi. Temeva un fallimento, ma adesso festeggia il suo trionfo personale, anche se la "guerra" non è ancora finita.

Ad agosto ci saranno le elezioni presidenziali e poi nel 2015 sarà la volta del voto per le politiche. Il premier al momento sta valutando due opzioni: correre per la poltrona da presidente (una carica che ancora gli manca), o tentare la strada del quarto mandato da primo ministro. La tentazione più forte per lui - si sa - è quella di diventare presidente della Repubblica con la prima elezione diretta del capo dello Stato che finora non è mai stato votato dai cittadini, ma dal Parlamento.

In che direzione sta andando la Turchia a immagine e somiglianza di Erdogan? Sicuramente il Paese si sta allontanando dalle più elementari regole alla base delle democrazie occidentali. L'autoritarismo del premier di Ankara ha ulteriormente contribuito al congelamento del processo di adesione all'Europa, e - allo stesso tempo - ha messo all'indietro le lancette dell'orologio, riportando la Turchia all'epoca pre-laica (e democratica) di Mustafa Kemal Ataturk.

Erdogan, al potere con il suo partito musulmano dal 2002, ha dato voce a quella massa di islamici che nello Stato laico non riuscivano a trovare il loro spazio. Milioni di persone che vedono nel premier la realizzazione di tutte loro aspirazioni, lo sdoganamento da una condizione "inferiore", per assurgere nell'Olimpo del business e salire uno per uno i gradini della lunga scala sociale.

Su questo ha puntato Erdogan sin dall'inizio; sul senso del riscatto da parte di una pletora di persone che si sono sentite messe ai margini della Repubblica laica voluta da Ataturk. Sono quelle persone che non vanno su Twitter né su Youtube, che portano il velo, che rispettano il mese di Ramadan e che - cosa assai preoccupante in un paese che si definisce "democratico" - vorrebbero imporre con tutti i mezzi i loro standard di vita al resto della popolazione.

Il partito di Erdogan (Akp) conta su 9 milioni di iscritti e 2 milioni e mezzo di attivisti. Cifre stellari, che danno il polso di quanto sia radicata sul territorio la formazione islamica del premier, che - in virtù del risultato di domenica - adesso torna a mostrare i muscoli e promette un ulteriore giro di vite contro "l'opposizione".

Che non è solo quella silenziata e fragile del partito Repubblicano (Chp), fondato da Ataturk e ormai scomparso dall'effettiva scena politica del Paese da quando Erdogan ha vinto le sue prime elezioni, ma è l'opposizione che respira per strada, a piazza Taksim con gli attivisti di Gezi e nelle principali città del Paese.

Sono loro gli oppositori da punire, quelli che usano i social network e che denunciano giorno per giorno l'orrore di politiche autoritarie e liberticide, che strangolano le più elementari libertà individuali. Fino a che punto si spingerà Erdogan? Sicuramente userà il pugno di ferro, ed è stato chiaro sin da subito.

Davanti alla folla dei suoi sostenitori nel quartier generale dell'Akp, il premier ha etichettato come "terroristi" i suoi nemici politici, e ha detto che in quanto tali "Pagheranno il prezzo delle loro azioni, gli sarà presentato il conto". "Come possono aver pensato di minacciare la sicurezza nazionale?".

Il futuro che si intravede all'orizzonte della Turchia sta tutto in queste parole. La "minaccia" al potere di Erdogan si traduce in una minaccia "alla sicurezza nazionale", perché è lui la nazione, è lui l'uomo solo al comando dopo aver spazzato via tutti i possibili avversari, dai vertici militari laici ai giudici costituzionali, che in Turchia sono i guardiani della laicità dello Stato.

E dopo aver "sistemato" le cose con i "terroristi", il premier salderà il conto anche con i nemici islamici che seguono il clerico esiliato Fetullah Gulen. Perché la lotta per il potere in Turchia assume anche i contorni di un profondo conflitto all'interno del mondo islamico, tra due visioni diverse della politica, pur sotto l'egida dei medesimi principi musulmani.

Molti credono che Gulen, che vive negli Stati Uniti da più di venti anni, potrebbe tornare in Turchia per correre alle elezioni presidenziali. Un'idea fantascientifica, anche sul Bosforo tutto è possibile. Ma Fetullah Gulen è un islamico radicale, mentre Erdogan, sin dalla sua elezione, è stato definito un "islamico moderato".

Siffatta "moderazione" finora non si è vista, né quando il premier ha impedito la vendita di alcolici nei locali all'aperto di Istanbul (causando la chiusura di decine e decine di attività), né quando ha oscurato Twitter e Youtube, perché "minacciavano la sicurezza nazionale" (o personale, a seconda dei punti di vista).

In ogni caso, con Gulen o con Erdogan, la Turchia si appresta a vivere un nuovo oscurantismo, e la censura dei social network e il bavaglio alla stampa sono solo l'inizio di una lunga serie di azioni che Erdogan potrebbe presto mettere in campo per blindare il suo potere.

Certo, è possibile che ci saranno nuove proteste di piazza, ma dopo la vittoria all'ultima tornata elettorale il premier probabilmente si sentirà "legittimato" a rispondere in maniera ancora più dura di quanto abbiamo visto succedere nell'estate del 2013.

Questa non è una buona prospettiva per la Turchia, né tanto meno per l'Europa, visto che Ankara fa parte della Nato e questo genera un problema serio anche per l'Alleanza atlantica, che però per ora preferisce concentrarsi sul braccio di ferro con la Russia, sventolando quei sacrosanti principi democratici che proprio in un suo Paese membro vengono puntualmente calpestati. 

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Anna Mazzone