La guerra del calcio in Siria
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La guerra del calcio in Siria

Il regime e gli oppositori si scontrano anche sui campi del pallone

Il campionato di calcio non è mai soltanto una coppa contesa tra qualche squadra, ma è anche il racconto di ciò che divide e unisce un popolo. Nelle dittature lo stadio è sia il palcoscenico per mettere in scena il supporto della nazione al suo leader sia il luogo scelto dai dissidenti per incontrarsi senza bisogno di autorizzazione. La Siria non fa eccezione, al punto che tanti episodi della sua storia passano proprio per le arene di gioco, diventate teatro di contestazioni contro il regime o scenario di adunanze propagandistiche dei sostenitori di Assad.

Non è un caso che la storia del campionato in Siria inizi nel 1966, quando il partito Ba’ath, ancora oggi al governo, prende il potere con un golpe militare. L’impronta dell’esercito sul calcio siriano è evidente fin dai primi anni, al punto che scorrendo l’albo d’oro si scopre che la formazione più titolata è “Al Jeish”: la squadra dei militari. Il motivo di questo successo lo spiega James M. Dorsey, autore del blog “middleeastsoccer” e fellow della Nanyang Technological University di Singapore: “Questo club è un po’ come la nazionale, in Siria i calciatori più bravi vengono obbligati ad arruolarsi nell’esercito e quindi entrano a far parte di questa formazione”.

Il legame tra calcio e regime è così stretto che c’è chi ritiene che il termine “Shabiha” , usato per indicare i paramilitari fedeli ad Assad, derivi dalla parola “Shabih” (portiere). Questo perché, come l’estremo difensore sul campo di gioco, gli Shabiha intervengono quando la situazione è disperata. C’è poi un’altra possibile spiegazione etimologica che avrebbe come protagonista un membro della famiglia di Bashar Al Assad.

Il Patron della squadra di calcio di Latakia (Teshreen) è Fawwaz al-Assad, cugino del Premier siriano, che amava girare per le vie della sua città con una grossa Mercedes “spettrale” (aggettivo che in arabo si traduce con “shabiha”). Non voleva passare inosservato e c’è chi racconta che una volta, contrariato perché un arbitro aveva annullato un gol della sua squadra, sparò qualche colpo in aria con la sua pistola per far cambiare idea al giudice di gara, che subito avrebbe convalidato la rete.

Non bisogna stupirsi se un campionato così influenzato dai capricci degli Assad sia stato scelto come vetrina da chi contesta il regime. È il caso dei tifosi della squadra di Qamshli, una città popolata soprattutto da Curdi. Nel 2004 gli ultras del club locale “Al Jihad” portarono allo stadio le bandiere del Kurdistan e si misero a cantare “siamo pronti a sacrificarci per G. W. Bush”. Erano i giorni successivi ad un’operazione americana contro le milizie fedeli a Saddam Hussein a Falluja e questa provocazione era stata organizzata per rispondere ai tifosi della squadra di Dayr az-Zawr, che avevano insultato i leader curdi. Ne seguirono gravi scontri che costarono la vita ad almeno 30 persone.

Il campionato, nonostante lo stato di guerra, è comunque andato avanti nel 2012 e nel 2013, ma tutte le partite si sono disputate a Damasco. Secondo James M. Dorsey “l’obiettivo di Bashar Al Assad è dimostrare che la situazione è sotto controllo”. Il campionato si è concluso con la vittoria di “Al Jeish” (l’esercito) contro la squadra della polizia (Al Shorta).

Anche i ribelli hanno usato il calcio per promuovere la loro lotta. L’ex portiere della squadra “Al Karamah” e della nazionale giovanile siriana, Abdul Baset Al-Sarout, è ormai uno dei leader della rivolta ad Homs. La televisione di Stato siriana ha addirittura parlato di alcuni contrabbandieri che avrebbero copiato le tattiche del Barcellona per coordinarsi nei monti al confine col Libano, assumendo ciascuno la posizione di un calciatore della equipe catalana sulla mappa.

C’è poi stato l’episodio di Omar Al Soma, giocatore della squadra di Deir Al Zour, che ha alzato la bandiera dei ribelli di fronte alla curva siriana in diretta televisiva (episodio poi censurato). L’episodio è accaduto dopo la finale vinta dalla Siria alla coppa dell’Asia Occidentale.

Questo gesto ha creato diversi problemi al regime, che era pronto a celebrare la vittoria del 2012 come un momento di gioia e unità. La realtà dello scontro in atto era infatti entrata in una partita di calcio, rovinando i piani di Assad.

Intanto due milioni di Siriani stavano lasciando il loro Paese per sfuggire alla violenza del regime o di alcuni gruppi islamisti. Per molti di loro non bastava più una partita di calcio per sentirsi orgogliosi di essere siriani in questi tre anni terribili. Forse non è un caso che in questo Paese molti degli appassionati di calcio preferisca tifare Barcellona, Manchester United o Juventus invece che le squadre locali, anche solo per dimenticare, almeno per 90 minuti, quale sia la loro cittadinanza in questo periodo tragico.
  

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Matteo Colombo

Vive tra Ankara e Il Cairo per studiare arabo e turco. Collabora con  diversi siti di politica internazionale. Le sue grandi passioni sono  l’Egitto, la Siria e la Turchia

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