La fronda del Pd: i rottamati
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La fronda del Pd: i rottamati

Scomparsi? Macché. Massimo D’Alema tesse in silenzio la fronda dei vecchi maggiorenti del Pd, accantonati da Matteo Renzi. Puntando a un suo errore. Anche piccolo

C’è chi si è arreso e chi no. Ed è con compostezza rassegnata e forse speranzosa che Guglielmo Epifani e Piero Fassino, Dario Franceschini e Antonio Bassolino, un tempo protagonisti sul proscenio del Partito democratico, si sono consegnati al nuovo principe Matteo Renzi, con la constatazione, tra il mortificante e l’inebriante, che il segretario ragazzino può far vincere il centrosinistra, riuscire dove loro hanno fallito e (chissà) garantirli ancora, in qualche modo, anziani come sono.

Ma nella vecchia guardia s’ode per lo più come un rullio di tamburelli ad agitare le notti insonni del partito che ha visto sostituiti, in segreteria, a Firenze, la bandiera e il simbolo con la R di Renzi: ed è il mormorio degli espropriati. Massimo D’Alema non fa più vita d’apparato e in largo del Nazareno neanche s’affaccia. Imbronciato per come va il mondo, a 64 anni l’ex presidente del Consiglio passa la giornata tra lo studio della Fondazione italianieuropei, con lo sguardo su piazza Farnese, e il suo appartamento nel quartiere Prati: lunghe passeggiate e lunghe telefonate con Anna Finocchiaro e Ugo Sposetti, con il vegliardo Alfredo Reichlin, con i giovani allievi Stefano Fassina e Gianni Cuperlo, con Matteo Orfini e Andrea Orlando, persino con Rosy Bindi e Franco Marini, talvolta con Beppe Fioroni, e ora che sta meglio pure con Pier Luigi Bersani.

E solo il rumore della politica di superficie, le trattative sulla riforma elettorale, le spavalderie giocose di Renzi, le intemperanze di Angelino Alfano e le acrobazie di Silvio Berlusconi velano le parole troppo grosse che si scambiano da settimane gli sconfitti, le loro confidenze segrete, i sogni vagamente scoloriti, «la Cgil è con noi, Susanna Camusso è con noi, Carla Cantone è con noi». Con la parola «scissione» che fa capolino qua e là, che viene maneggiata con sempre minore cautela, con infastidita incredulità da Orfini e Orlando, con dissimulato orgoglio da Fassina: l’idea di costituire un partito della sinistra che possa confluire con quello di Nichi Vendola e poi allearsi, come rivela Gad Lerner, che per i salotti ha orecchio, «con un Pd ridimensionato».

Ma è possibile l’ultimo colpo di coda degli sconfitti? Renzi spacca la sinistra? «La scissione non ci sarà mai. Ma Renzi non è Silvio Berlusconi, a lui non è concesso di fare tutto senza pagare dazio» dice con saggia condiscendenza Ugo Sposetti, il tesoriere dei Ds, l’amico di D’Alema, l’uomo ancora considerato la speranza economica della sinistra rimasta orfana del suo partito (Sposetti amministra per conto della fondazione Ds un patrimonio di 2.400 immobili ereditati dal Pci, un tesoro valutato mezzo miliardo di euro che non è nella disponibilità del tesoriere renziano del Pd Francesco Bonifazi).

Dunque la scissione non ci sarà, ma per Fassina e per D’Alema, per il gruppo di Bersani, per Davide Zoggia e per Nico Stumpo, per Alfredo D’Attorre e persino (dicono) per Giorgio Napolitano, il sorriso ribaldo di Renzi è un coperchio sul vuoto, la cinerea perfezione del niente che si contrappone all’investimento oneroso fatto sul governo di Enrico Letta. Persino Emanuele Macaluso, l’ultimo dei riformisti amendoliani, manifesta un neghittoso scetticismo siciliano: «Renzi è come Mario Segni» dice. Cioè un incomprensibile bluff, una meteora indecifrabile, percepita con senso d’urtante estraneità. E raccontano che al termine del loro ultimo incontro al Quirinale il presidente della Repubblica, che non ha mai amato la franchezza di modi del Cavaliere d’Arcore, spiccio e funzionalista com’è, abbia commentato così la visita di Renzi: «Berlusconi è decisamente più educato».

Ma è poi vero che la scissione non ci sarà? La risposta, sempre mormorata a mezza bocca, cambia a seconda dell’interlocutore. E ci sono uomini che i dolori, le ingiustizie della vita, le sconfitte e le crudeltà anche involontarie le subiscono fino a soffrirne fisicamente: come Bersani, la cui recente infermità dimostra l’eterno legame tra malattia e destino, tipico dei buoni d’animo. E ci sono poi uomini fatti d’un’altra pasta, come D’Alema, che al contrario tramutano il dispiacere in rancore, e poi del rancore si nutrono, ne fanno una forza e si trasformano in tramatori: «Con Renzi siamo davvero alle comiche» dice l’ex segretario del Pds, ex ministro degli Esteri, ex presidente del Consiglio. E i suoi movimenti rifluiscono con un moto disordinato e misterioso, corrono sul filo del telefono, avanzano per mezze ammissioni nei corridoi più riparati del Palazzo e in quel fortino di coscritti senz’acqua che è diventata casa D’Alema da quando il suo baffuto inquilino ha capito d’aver perso il controllo del partito, malgrado non abbia mai perso il suo più raffinato talento: quello di tessere. Dunque è arricciato attorno a se stesso e ai suoi baffi, il risentimento lo gonfia, è il suo pane quotidiano.

Renzi se n’è accorto, vede le manovre nel gruppo parlamentare del Pd, intuisce la minaccia, intravvede il profilo baffuto dietro ogni angolo e forse intende blandire la vecchia volpe affamata e vendicativa. «Ci sarebbe un posto da commissario europeo» gli ha fatto sapere, e sarebbe quello di Antonio Tajani, pare. D’Alema è interessato, ma non si ferma: riunisce e telefona, spera in un errore di Renzi sulla riforma elettorale, in un passo falso, in un flop alle europee, alle amministrative o alle regionali sarde, e dunque ai suoi incerti ragazzi, più al focoso Fassina che al placido Cuperlo, rivolge occhiate imperiosamente complici: «Se quello tira troppo la corda ci proviamo. Ma tutti zitti. Tutti zitti».

Le volpi osservano l’agenda che attende Renzi con un moto di speranza nel cuore: «Ora vediamo come se la cava il piccolo Silvio» sussurra Bindi, mentre i meno imberbi tra i sostenitori del segretario, come Walter Veltroni, aggrottano la fronte, perché Austerlitz fu un lampo, ma lo fu anche il disastro di Waterloo. E dunque le scadenze alimentano la vita agra del Pd, e «bisogna vedere come andranno tutte queste cose, come andranno le europee» mormora Fassina. Così si moltiplicano le cene, i conciliaboli, le visite di cortesia, e in questi ritrovi i commensali parlano incessanti e frettolosi, avvolti in un discorrere quasi tintinnante d’oscuri coltelli, fasciati dall’odore dei cibi.

Il dalemismo non è una professione di fede, una vocazione, un’idea divorante, ma una trama immateriale eppure solidissima, un incessante mormorio sotterraneo, pervasivo, discreto. È come il rovescio di un ricamo, un groviglio di fili e di nodi. E al suo interno il profilo del potere si fa sfumato: un sordo ronzare d’intrighi, ipotesi di complotto, conte e contro conte, congiure d’incappucciati. Così il gatto D’Alema è sprofondato nel giro delle serate romane, è il capo della rivolta degli sconfitti, è di corvée nei salotti che infestano la sinistra capitolina, straparla di Renzi, ne mastica il nome quasi mordendolo («Potranno passare anche 20 anni ma io questo lo sfascio») e mentre sostiene di trovarsi a distanza perché «com’è noto, passo la maggior parte del mio tempo all’estero», in realtà indica la cupa bellezza delle rovine: il passato, il partito, la sinistra corrosa dal «mocciosetto di Firenze».

Dunque punzecchia e allude: «Le riforme sono necessarie e bisogna farle bene. Ma il Parlamento discuterà nella piena libertà di approfondire, correggere, decidere...». Ed è forse vero, come dicono, che tutti hanno voglia di rivincita nella sinistra del Pd, ma ciascuno a modo suo: i vecchi con stanchezza, i giovani con paura. E D’Alema con sarcasmo.

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