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L'Europa e il "paradosso della tolleranza"

Discriminazioni culturali e razziali sempre più diffuse e violente impongono alla società aperta prese di posizione altrettanto forti e radicali

La società aperta deve difendersi. Per farlo deve poter abdicare al principio della tolleranza: riconoscere che se lo applica a tutti e a oltranza, compresi gli intolleranti, le frange intolleranti della società finiranno per distruggere sia la società aperta, sia la tolleranza stessa che ne sta alla base. È questo che dice il “paradosso della tolleranza” del filosofo e epistemologo Karl Popper.

In altri termini: la tolleranza estrema divora sé stessa. Popper lo teorizzò nel 1945 in un testo fondamentale e attualissimo: La società aperta e i suoi nemici. Noi siamo la “società aperta”, e sappiamo bene chi sono i nostri nemici, chi mina la nostra identità: gli “intolleranti”.

Da Est a Ovest

In Europa, purtroppo, le frange intolleranti stanno dimostrando di essere più forti e popolari che in passato. I partiti che le rappresentano conquistano percentuali a due zeri, come Jobbik in Ungheria.

Portano in piazza decine di migliaia di persone, come nella Polonia che celebrava nei giorni scorsi la fine della Grande Guerra e il ritorno all’indipendenza nazionale. L’ultranazionalismo, invece di sventolare la bandiera del patriottismo, si colora di toni xenofobi e antisemiti. E purtroppo sfumature di neo-nazismo tornano a macchiare l’immagine di una Germania che aveva imparato la lezione del XX secolo e sembrava ormai vaccinata.

Anche la Polonia è agitata da un paradosso: l’antisemitismo senza ebrei, punta massima del razzismo. Prima della Shoah, gli ebrei polacchi erano 3 milioni, oggi non superano probabilmente i 50 mila. Che senso ha l’antisemitismo, se mai ne avesse uno? Questa sproporzione è la prova del pregiudizio e della follia.

In Ungheria, prima della Seconda Guerra Mondiale, gli ebrei erano oltre 700 mila, oggi poco più di 100 mila. Ma anche in società che si richiamano a parole d’ordine come “libertà, uguaglianza e fraternità”, in Francia, le pulsioni antisemite attraversano ipocritamente una società molto meno “aperta” di ieri. Lo dimostra fra l’altro il calvario di quanti hanno cercato invano di trasmettere in Tv e pubblicizzare il film 24 jours sul martirio di Ilan Halimi, il ragazzo ebreo francese di origini marocchine rapito il 21 gennaio 2006 e torturato per tre settimane “in quanto ebreo” (prima di morire il 13 febbraio).

Israele è sempre più la meta di una lenta e costante diaspora di ebrei francesi presi di mira da una crescente intolleranza. Le difficoltà del Vecchio Continente - la crisi economica, la concorrenza asiatica, le ondate migratorie - hanno catalizzato il risorgere di sentimenti mai sopiti di discriminazione culturale e razziale.

Neppure l’Italia, per quanto non ai livelli di Francia, Polonia o Germania, è immune da certe manifestazioni di antisemitismo, a destra e a sinistra.

Tolleranza zero per l'intolleranza

Ecco, di fronte a tutto questo va ribadito il vecchio ma sempre valido paradosso di Popper. “Dovremmo proclamare, in nome della tolleranza, il diritto di non tollerare gli intolleranti”. Si tratta di un principio liberale: la mia libertà finisce dove comincia quella altrui. Anche la mia libertà di parola finisce laddove la mia libertà minaccia di pregiudicare la “libertà di parola” degli altri.

Contro neo-nazisti, antisemiti e Imam fomentatori di odio, una “società aperta” deve poter imporre limiti alla predicazione e propaganda. Tutelarsi con il diritto e con la forza. In nome della tolleranza (e di Popper).

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Marco Ventura

Inviato di guerra e cronista parlamentare de Il Giornale, poi  collaboratore de La Stampa, Epoca, Il Secolo XIX, Radio Radicale, Mediaset e La7, responsabile di uffici stampa istituzionali e autore di  una decina fra saggi e romanzi. L’ultimo  "Hina, questa è la mia vita".  Da "Il Campione e il Bandito" è stata tratta la miniserie con Beppe Fiorello per la Rai vincitrice dell’Oscar Tv 2010 per la migliore  fiction televisiva. Ora è autore di "Virus", trasmissione di Rai 2

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