Il flop della Nazionale e dell'Italia (intera)
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Il flop della Nazionale e dell'Italia (intera)

L'eliminazione dai Mondiali è anche un problema di formazione. Basta vedere che cosa succede in Usa, dove gli studenti che eccellono negli sport diventano star e ottengono le migliori borse di studio - Tutto sui Mondiali 2014

 

Perdiamo i Mondiali di calcio perché non siamo istruiti. Che cosa credete? Che si possa andare in Brasile e vincere solo perché la domenica stipiamo gli stadi? Lo sport è lo specchio del paese. Il frutto di una cultura. La prova della forza o debolezza di un popolo. Il risultato di una politica. Che a sua volta riflette pregi e difetti della società.

C’è un termine inglese, “education”, di fatto intraducibile. Non si traduce con educazione, o buona educazione. È molto di più di quello che per noi è l’istruzione. Si avvicina al concetto di “formazione”. Ma nella formazione dei ragazzi per esempio americani lo sport non è un optional. È un pilastro della formazione e della società. Appartiene alla comunità. È legato alla competitività. È sinonimo di passione, amicizia, sfida con se stessi e con gli altri. È senso della comunità. Nel percorso formativo in America lo sport, ogni tipo di sport, può fare la fortuna degli studenti più dotati. Dare un futuro. Campi di football, hockey, atletica, basketpiscine, palestre, sono parte integrante dell’architettura scolastica. A un istituto pubblico che si rispetti (senza contare i privati, se possibile ancora più attrezzati) non mancano mai le strutture sportive. Lo studente atletico, capace di fissare un primato, guadagna borse di studio, entra nei college più esclusivi, è una star fra i compagni e nelle classifiche.

Nelle piscine scolastiche i residenti delle città vanno la mattina a fare nuoto libero gratis. I ragazzi raccolgono fuori dai supermercati e in famiglia i fondi per sponsorizzare il corredo scenografico, gadget e design che identificano la squadra della scuola: tute, magliette, cappellini, borse... Ci sono campionati Stato per Stato, a ogni livello. La competizione è tutto, anche se ciò che conta è spremere tutto il sangue che hai, dimostrare di aver dato il massimo e magari qualche oncia di più. E sei rispettato. Se poi vinci, sei osannato. Il tuo nome conta, ha un valore. Ti cercano, perché darai lustro al college dove andrai. Non sei un talento solitario, sei parte di un team. Vai avanti, gara dopo gara. Anzitutto gara con te stesso.

Provate a pensare all’insegnante di educazione fisica nella scuola di vostro figlio, o vostra figlia. Non è un Calimero, il “professore” col quale non vai a parlare? C’è il vecchio nuotatore, l’ex rugbista, il teorico dell’educazione motoria. In che condizioni versano le palestre scolastiche? Ci sono, come in America, campi da tennis, anelli di atletica, piscine? C’è la possibilità di fare sport fuori? C’è una diversificazione delle specialità sportive secondo le stagioni? Si fa corsa? Basket? Nuoto? Tennis? Football? Sci? O ci si dondola sui muretti scrostati, sotto un canestro sbrindellato, magari con la sigaretta in bocca?

C’è da stupirsi se poi non passiamo il primo turno ai mondiali per due volte di seguito? C’è da sorprendersi se stiamo dietro agli altri in tante specialità? Atletica, sci, nuoto, perfino tennis. Un tempo ci soccorreva lo spirito solitario e di sacrificio, il talento individuale che a dispetto di tutto spiccava grazie alla forza di volontà e alla capacità di soffrire. Nel calcio come nel ciclismo, nel nuoto e nella boxe. Ma oggi i nostri centri sportivi, fuori dalla scuola, sembrano istituti di estetica. Passerelle mondane, luoghi per rimorchiare. Una volta c’era la voglia di primeggiare: eravamo disposti a soffrire, per questo. Oggi, quanti sono i ragazzi che non detestano l’idea di lavorare prima della laurea (e, dopo, detestano l’idea di fare lavori che non siano all’altezza di una laurea conseguita in una università che peraltro non conta nulla, che risulta “non pervenuta” nelle classifiche accademiche internazionali)? I nostri figli non sanno che cosa significhi appartenere a un team, condividerne lo spirito, confrontarsi con gli altri. Sono, spesso, viziati. Possiamo dirlo: molli?

In questo senso, in Brasile perdiamo perché non siamo “istruiti”, non sappiamo cosa sia la battaglia della formazione. Perché alle scuole pubbliche è vietato accettare fondi privati, perfino le banali collette fra genitori. Perché gli insegnanti in cattedra, anche quelli di educazione fisica, hanno un’età media da ere geologiche e considerano il loro compito esaurito con il trillo della campanella. E sono scoglionati e demotivati. Invecchiano insieme alle palestre. Ecco perché il fallimento dello sport nazionale è davvero, fuori dagli stereotipi, solo un’altra faccia del fallimento del paese.         

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Marco Ventura

Inviato di guerra e cronista parlamentare de Il Giornale, poi  collaboratore de La Stampa, Epoca, Il Secolo XIX, Radio Radicale, Mediaset e La7, responsabile di uffici stampa istituzionali e autore di  una decina fra saggi e romanzi. L’ultimo  "Hina, questa è la mia vita".  Da "Il Campione e il Bandito" è stata tratta la miniserie con Beppe Fiorello per la Rai vincitrice dell’Oscar Tv 2010 per la migliore  fiction televisiva. Ora è autore di "Virus", trasmissione di Rai 2

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