Il coraggio delle donne
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Il coraggio delle donne

Sabina, Din, Lubna ed altre donne che hanno avuto la forza di andare contro le regole

O c'è o non c'è: il coraggio non è negoziabile. L'umanità, si sa, abbraccia i pavidi e gli impavidi. Tuttavia, sebbene le donne siano state tradizionalmente “bollate” come “sesso debole” e risultino ancora oggi vittime designate nei femminicidi crescenti (ma in tal caso occorrerebbe un discorso a parte per spiegare cosa spinga certi uomini ad odiarle così tanto da arrivare a ucciderle), i più significativi e profondi atti di ribellione positiva provengono spesso proprio da loro.

Vale a dire, da quelle stesse persone che da tempo immemorabile sono state costrette – loro malgrado – a subire prepotenze e soprusi taciti o manifesti, in casa e in società, vedendosi negati anche i benché minimi diritti che andrebbero riconosciuti ad ogni essere umano proprio in quanto tale.

Se in un paese come l'Afghanistan il presidente Hamid Karzai si è permesso di firmare una legge che autorizzava lo stupro coniugale da parte del maschio (l'uomo è pur sempre “padrone e sovrano di una donna”!), nonché altre restrizioni ai danni della popolazione femminile qualcosa di sbagliato alla base ci deve pur essere. 

Per questo Sabrina Saqeb, classe 1979, membro della commissione per gli affari delle donne nella Wolesi Jirga dal 2005, ha deciso di dare battaglia. "Fare politica in Afghanistan è molto rischioso, soprattutto se è una donna a parlare di diritti delle donne e dei diritti umani, questioni ben poco affini all'Islam”, sono state le sue parole.

Le parlamentari godono di maggior popolarità rispetto ai loro colleghi. Forse perché sono particolarmente sensibili alle necessità dei poveri sparsi nei vari distretti (spesso difficili da raggiungere); forse invece semplicemente perché riescono a interpretare meglio i sentimenti individuali. Certo, Sabrina Saqeb, la più giovane del parlamento, sapeva fin dall'inizio che la lotta da affrontare non sarebbe stata semplice, in un paese fortemente condizionato da un integralismo religioso ostinato e radicato, orientato a negare alla figura femminile anche il minimo senso di dignità umana.

Ma l'eco suscitata dalle sue proteste ha in qualche modo spinto il presidente Karzai a una rapida inversione di rotta, inducendolo a promettere in tempi brevi modifiche sostanziali alla famigerata legge sul diritto di famiglia causa di tanto scalpore.  

Un grande sostegno a Sabrina è giunto dalla sorella Diana, regista e intellettuale (ama Dostojevskij, Cechov, Virginia Woolf e Michel Foucault), che si è fatta promotrice di una ingente manifestazione a Kabul, alla quale hanno partecipato circa 200 donne. E molte altre se ne sarebbero sicuramente aggiunte, se il corteo non fosse stato preso di mira dai soliti oppositori (maschi) intransigenti. “Hanno lanciato pietre, pronunciando minacce terribili all'indirizzo donne, cercando di attaccarle fisicamente”, ha spiegato Diana. “Non ho avuto paura, ma ero scioccata”

Certo è, del resto che “Karzai avrebbe dovuto essere più responsabile in una società dove, come sostengono le Nazioni Unite, le donne 'sono vittime di discriminazione e violenza' e dove il concetto stesso di diritti umani ha ben poco significato ancora per troppe afghane”. In ogni caso l'altra metà dell'Afghanistan sembra recepire in fretta il messaggio di ribellione nei confronti di quell'annientamento psicologico ed etico-culturale a cui un regime opprimente e l'arcaica mentalità patriarcale pretende ancora di volerle condannare. “Speriamo di poter gradatamente arrivare a risolvere questi problemi”, ha concluso Diana “cercando pazientemente di convincere i mujahidin ex anti-sovietici tuttora influenti in Afghanistan a maggiori aperture verso il cambiamento. Se riuscissimo a cambiare questa mentalità, allora saremmo a buon punto sul cammino emancipativo”

Noi occidentali, così allegramente abituati a considerare la libertà come un diritto naturale non negoziabile, fatichiamo alquanto a concepire realtà diverse da quella a cui siamo abituati. Non sappiamo davvero cosa significhi insorgere contro un sistema che nega la libera espressione e l'uguaglianza sociale tra gli individui. 

Ma probabilmente, fino a quel tragico giorno del lontano 1989, neanche Din Dizilin – all'epoca docente di filosofia all’Università del Popolo di Pechino - lo avrebbe mai immaginato. Quello davvero fu un anno tragicamente memorabile per lei e per il suo paese, la Cina. Dal 15 luglio al 4 giugno le strade di Pechino vennero infatti invase da migliaia di studenti, operai, intellettuali, tutti accomunati dalla medesima ostilità nei confronti della tirannia imposta dal regime comunista al potere. Tutti ricordiamo l'immagine impressionante del ragazzo inerme e disarmato ritto davanti ai carri armati dell'esercito assetati di vendetta in piazza Tienanmen. 

Ebbene, proprio nel corso dell'ultimo giorno di manifestazione il figlio di Din Dizilin venne ucciso dalle forze governative, esattamente come molti altri prima e dopo di lui. Aveva solo 17 anni e una vita davanti a sé. 

Dopo essere sopravvissuta a un tentativo di suicidio, la donna decise di dedicare interamente ogni sua forza residua all'impegno civile e sociale, in nome di quel ragazzo tanto amato che i vertici politici le avevano strappato. Fondò così un'associazione  denominata “Le madri di Tienanmen”, con lo scopo dichiarato di recare un po' di conforto a centinaia, migliaia di donne. Di tutte quelle donne, cioè, alle quali Deng Xiaoping aveva fatto ammazzare i figli pur di evitare che la sopravvivenza del regime comunista fosse messa a repentaglio. 

Con gli anni l'organizzazione ha progressivamente assunto una notevole valenza simbolica a livello politico, tanto da essere diventata un potente strumento di pressione in seno alla società.

Il costante impegno nella lotta contro l'oppressione comunista è valso a Din Dizilin non solo il divieto di insegnare in qualsiasi ateneo del paese ma anche una serie di arresti che tuttavia non hanno distolto la donna (ormai ultrasettantenne) dai suoi obiettivi. Ora è diventata il volto della Cina che non puo', non sa rassegnarsi. “In una società priva di valori etici ed affettivi”, è l'essenza del messaggio lanciato dalla sua organizzazione, “non sopravvive la verità. Senza verità, non può esistere giustizia; e senza giustizia donne - e uomini - non potranno mai essere liberi”

Essere liberi significa anche poter scegliere. E quando, come nel caso che vede protagonista la sudanese Lubna Ahmed Hussein, anche una banalissima decisione relativa a un capo da indossare si trasforma in un affare di stato, allora la situazione emerge nella sua gravità.

Nel luglio di quattro anni fa Lubna, giornalista presso il quotidiano di sinistra “al-Sahafa”, aveva deciso di trascorrere una piacevole serata in un ristorante di Khartoum insieme ad altre donne, come avviene in quasi ogni angolo del mondo.   Ma il Sudan non è un paese come gli altri. Lì la polizia  è spietata con le donne; controlla qualsiasi aspetto della loro vita. 

E quella dannata sera non ha fatto eccezione. Agli agenti è bastata una rapida incursione nel locale per scoprire che Lubna e altre 13 ragazze stavano violando i sacri principi islamici, dal momento che  sotto la tunica indossavano  i pantaloni. Capo d'abbigliamento, questo, ritenuto “indecente e osceno” in base all’articolo 152 del Codice penale sudanese, che prevede per i trasgressori una pena di 40 frustate.

Subito arrestate, dieci delle donne hanno preferito dichiararsi apertamente colpevoli del reato contestato loro e accettare perciò la riduzione di pena  a dieci frustate. Lubna invece non ha ceduto. 

“Non ho paura, davvero",aveva precisato allora. "Non per il dolore fisico. La fustigazione è solo un insulto. Non per me ma per le donne, per gli esseri umani e anche per il governo del Sudan” .

Ha quindi preferito essere processata per dare il massimo risalto al suo caso e indurre in tal modo chi di dovere a cambiare la legge. La sentenza finale del tribunale locale le ha commutato la condanna in 200 dollari di  multa, ma ancora una volta Lubna si è ribellata: “Sono innocente. Non pagherò. Piuttosto andrò in prigione”, ha detto. “E' la mia occasione per difendere le donne sudanesi che da 20 anni vengono regolarmente arrestate e frustate per quello che hanno addosso". 

In carcere Lubna è rimasta circa un mese. La sua vicenda  stava suscitando  molto clamore e grande sdegno ovunque. L'Occidente cominciava a considerarla una specie di eroina in lotta contro un regime politico (l'ennesimo!) che negava ostinatamente l'autonomia femminile persino in relazione a qualcosa di così banale come una mise da indossare.

Per Lubna Ahmed Hussein la questione era e resta essenzialmente legata a una cattiva interpretazione della religione islamica, pure se l'Islam in sé “non specifica  se una donna possa o meno indossare pantaloni. Qui si tratta di una cattiva educazione maschile nei confronti delle donne. Io non mi considero affatto un'eroina, solo che non ho scelta",ha chiarito.“Ho molti pantaloni e parecchi vestiti nel mio armadio, ma non possiedo alcun abito tradizionale del mio paese.  Intendo mettermi ciò che preferisco e non voglio cambiare”. 

In fondo anche il fatto di riuscire a rimanere se stessi sempre e comunque è una forma di lotta, forse più efficace di molte altre destinate a un tramonto precoce. 

Diversa – sebbene dettata dalla medesima determinazione – è la battaglia condotta dalla marocchina Aminatou Hadar, nata ad Akka nel 1966 per contrastare l'occupazione del territorio saharawi (appartenente al suo popolo) da parte del governo di Rabat. 

Arrestata nel giugno del 2005 dopo essere stata ferita nel corso di un'Intifada non violenta a favore dell'indipendenza, venne torturata brutalmente e in seguito incarcerata per sette lunghi mesi. Il suo calvario, oltre alle molteplici manifestazioni di solidarietà espresse dai Saharawi, destò ben presto l'interesse di Amnesty International, che si attivò immediatamente per lanciare una campagna volta a favorire la liberazione della donna. Lo stesso Parlamento Europeo in quell'occasione non esitò a esporsi in prima persona per accelerarne il rilascio, cosa che avvenne solo il 17 gennaio del 2006, al termine della condanna. “ La mia gioia è incompleta senza il rilascio di tutti i prigionieri politici Sahrawi, e senza la liberazione di tutti i territori della patria ora sotto occupazione degli oppressori”,sono state le prime parole pronunciate da Aminatou Hadar all'uscita dal cercere.

Grazie al forte impatto mediatico suscitato dal suo caso, la portavoce dei diritti Saharawi ha avuto l'opportunità di  lavorare come ambasciatore itinerante della RASD, mantenendo contatti ufficiali con vari governi e associazioni umanitarie.

La Commissione spagnola di aiuto ai rifugiati (CEAR) le ha conferito in quello stesso anno il Premio Juan Maria Banderas  “per la difesa del diritto d'asilo e la solidarietà con i profughi” e l'Italia, a sua volta, l'ha onorata con l'attribuzione del Premio Marenostrum, inerentemente alla sezione riservata alla solidarietà. 

Nel nostro paese l'attivista maghrebina ha ricevuto inoltre la cittadinanza onoraria dai comuni di Napoli e di Sesto Fiorentino (FI). 

In seguito alla sua incessante opera di predicazione non violenta a difesa dei deboli, degli emarginati e degli oppressi il governo marocchino, che certo non gradiva tutta quella sorta di pubblicità negativa ai suoi danni, ha provveduto nel 2006 a privarla del  passaporto, anche se questo non ha certo impedito ad Aminatou Haidar di proseguire la sua opera, a causa  della quale lei è diventata, per tutti “la Gandhi del Sahara Occidentale”.

Sabrina, Diana, Din, Lubna, Aminatou: sono solo alcune delle donne che non si fermano di fronte ad alcun ostacolo. Donne che hanno saputo orientare la propria esistenza – spesso pagando di persona  prezzi altissimi – verso la giustizia, l'equità, la solidarietà. 

Donne che hanno fatto dell'altruismo la sola bandiera da rispettare, l'unica in grado di abbracciare l'intera umanità. Gli altri prima di tutto. 

Ciò ci riporta al passato più recente, che vede protagonista un'altra grande figura femminile universalmente nota e rispettata, Aung San Suu Kyi, colei cioè che nell'ambito del discorso pronunciato il 27 ottobre scorso - al cospetto delle autorità capitoline che le avevano appena conferito la cittadinanza onoraria -  ha specificato “La mia vita non stata fatta di sacrifici, bensì di scelte”. Già: perché di scelta si tratta.

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Rita A. Cugola