Diario di guerra: nella trincea di Assad
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Diario di guerra: nella trincea di Assad

La vita a Damasco sembra scorrere come sempre. Ma la tensione sale. E, al di là delle dichiarazioni di propaganda, il regime si prepara all’offensiva Usa.

Il clima che si respira a Damasco è surreale: i cristiani sono sotto tiro, la gente ha paura e i sunniti, maggioranza della popolazione, fanno scorte in attesa dell’attacco americano che forse non scatterà o sarà solo di facciata. È la Siria di Bashar al-Assad sconvolta da una guerra civile che in due anni è costata oltre 100 mila morti. La veloce autostrada che dal confine libanese porta a Damasco è costellata di posti di blocco e di carri armati sulle colline. Un giovane soldato governativo in mimetica, cappellino da baseball e scarpe da ginnastica, che controlla le macchine, si sforza di pronunciare al meglio la parola «welcome».

Damasco appare all’improvviso con un pinnacolo di fumo nero che si alza dal sobborgo di Jobar, dove ribelli e americani accusano l’esercito governativo di avere usato i gas. Un colpo di mortaio in pieno giorno, mentre la vita nel centro città sembra scorrere come sempre. Il traffico è lento e caotico a causa dei tanti posti di blocco. I quartieri e gli edifici governativi sono presidiati dai militari e circondati da blocchi di cemento, contro le autobombe. La gente è occupata nelle faccende quotidiane, anche se molti negozi sono chiusi. Verso sera l’apparente normalità è ancora più surreale. I botti dei colpi di mortaio e qualche raffica di mitra in lontananza ricordano a tutti che la guerra si combatte in periferia.

Qualche ristorante resiste, sebbene la clientela sia nettamente diminuita. Il night club Lavo apre regolarmente i battenti con lo spettacolo più spinto previsto a mezzanotte. I sunniti si riuniscono nei caffè, come il Royal, dove non manca l’immancabile ritratto di Bashar al-Assad succeduto al padre Hafez nella presidenza del paese. «Abbiamo paura e c’è tensione, inutile nasconderlo, ma penso che alla fine gli americani non bombarderanno o faranno qualcosa di simbolico per non perdere la faccia» sostiene Louay al-Masri, corpaccione ipernutrito da benestante, capelli tirati indietro e tazza di tè senza zucchero. È un sunnita, come il grosso dei ribelli che vogliono abbattere il regime.

«La mamma porta il velo e mia nipote va in giro con la minigonna» spiega. «All’inizio c’erano manifestazioni pacifiche per ottenere maggiore democrazia, ma adesso la situazione è inaccettabile. I takfiri, i terroristi, hanno preso il sopravvento». Al-Masri ammette di fare delle scorte nel caso la situazione dovesse precipitare: «Invece che 1 chilo di riso ne prendo 2 e tengo da parte 40 litri di benzina. Non è molto, ma se sganceranno le bombe sarà per pochi giorni».

Al-Manar è la televisione vicina a Hezbollah, i miliziani sciiti del Libano che, armi in pugno, danno man forte al regime di Assad. Il direttore della sede di Damasco
prevede scenari più apocalittici. «Se bombarderanno, la rappresaglia colpirà Israele, la Turchia o la Giordania, nel caso venissero usate come trampolini per l’attacco» dice convinto Wael Abbas. A 35 anni ha fatto diventare Al-Manar la tv preferita dei governativi: «Si rischia una guerra su larga scala e potrebbero venir colpite le basi Usa nel Golfo o le navi americane nel Mediterraneo».

Per il momento il conflitto vero ha sconvolto Maalula, 40 chilometri a nord di Damasco, cuore cristiano della Siria musulmana. Il 5 settembre è stata presa d’assalto dai ribelli, compresi gli estremisti del fronte Al-Nusra, che si ispirano al defunto Osama Bin Laden. All’ingresso del villaggio di 3 mila anime, in cui si parla ancora l’antico aramaico, resiste fra le macerie il cartello azzurro «Welcome to Maalula». L’artiglieria governativa martella la montagna di Al- Qalamoun che sovrasta la città. I ribelli si annidano nelle stesse gole e grotte dove, secondo la leggenda, trovò rifugio santa Tecla.

Nel monastero a lei dedicato un pugno di suore ortodosse ha dato rifugio a donne, vecchi e bambini. L’altro convento, quello di san Sergio, è semidistrutto. I seguaci della jihad avrebbero smantellato una grande croce sul tetto e ucciso almeno sei cristiani lasciando i corpi per strada come monito.Un manipolo di soldati governativi protetti da un carro armato è in prima linea. «In certi momenti li vedevo in faccia, a soli 10 metri, mentre li colpivamo duramente» racconta Suleiman, un soldatino di 18 anni con la mimetica impolverata dalla battaglia. Non fa a tempo a finire la frase che i cecchini ribelli cominciano a sparare sull’avamposto.

I militari rispondono al fuoco. Quando un soldato viene ferito e urla dal dolore, la sparatoria divampa. Uno dei governativi, che aveva cercato riparo, si alza in piedi e spara all’impazzata con il kalashnikov. Il ferito viene trascinato a spalle da due commilitoni, mentre il fuoco dei ribelli è sempre più vicino. I proiettili fischiano implacabili sopra le nostre teste. Un altro soldato viene colpito alla gamba destra e rotola sotto un carro armato nella speranza di trovare riparo. Non si rende
conto di essere sulla linea di tiro. Un ufficiale gli salva la vita trascinandolo via. Un colonnello con elmetto e occhiali scuri, che non vuole dire il suo nome, accusa: «Ci sparano addosso per provocare la nostra reazione. Sperano che usiamo le armi pesanti per incolparci di aver distrutto un luogo storico della cristianità».

La guerra scorre anche sulla superstrada che porta all’aeroporto di Damasco. L’autista va a tavoletta passando a un centinaio di metri dal minareto sbrecciato dalle cannonate. Incredibilmente c’è traffico. La zona controllata dai ribelli è un groviera di case bucherellate dalle raffiche, che confina con Jarmana, grande sobborgo meridionale della capitale siriana che si è garantito un nomignolo poco invidiabile: «La città dove piovono bombe». In realtà i segni delle distruzioni sono scarsi, ma un giovane giura: «Gli ultimi quattro colpi di mortaio sono piombati pochi giorni fa vicino a casa mia». Un palazzo porta gli aloni neri delle fiammate: segno che è stato sventrato da un’automobile imbottita di esplosivo.

I miliziani che presidiano la zona non amano farsi fotografare e gli abitanti hanno perfino paura di dire il proprio nome. «Il nostro motto è “Vittoria contro chi ci attacca”, che si tratti dell’America o di chiunque altro» tuona un omone baffuto aizzando gli animi. Metà della popolazione è composta da profughi. A una siriana scappata da Ras al-Ain, sul confine con la Turchia, tornano le lacrime agli occhi ricordando l’arrivo dei ribelli: «Ci hanno costretto ad abbandonare la nostra casa in pigiama alle 3 di notte. Siamo scappati con i bambini. È questo che volete voi europei, che ci caccino tutti?». Una giovane donna velata interviene: «Non abbiamo più forze. Vogliamo solo che tutto finisca».

Dall’altra parte della capitale il povero quartiere Mazze 86, abbarbicato sulle colline, è la roccaforte della minoranza alawita, che sostiene Assad. Il marmoreo palazzo presidenziale, probabile obiettivo dei raid a stelle e strisce, domina la zona. Il quartiere alawita sembra un formicaio. Ufficialmente tutti dicono di non avere paura confidando negli alleati russi e iraniani. In realtà, ammette Fadi, «abbiamo mandato mogli e figli nei luoghi più sicuri sulla costa fra Latakya e Tartus» dove gli alawiti sono storicamente forti. «La paura è che l’intervento americano finisca per aiutare Al Qaeda» sostiene il giovane funzionario governativo. «Le bombe apriranno la strada ai terroristi che vogliono sgozzarci tutti».

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Fausto Biloslavo