Congiure del silenzio: il morto americano numero 2.000 in Afghanistan
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Congiure del silenzio: il morto americano numero 2.000 in Afghanistan

Sia Obama sia Romney tacciono sulla "scelta impossibile" tra andarsene, consegnando il Paese ai talebani, o rimanere ma da perdenti

Siamo soltanto noi in Italia a dedicare articoli e commenti alla notizia del soldato americano morto in Afghanistan numero 2.000, ucciso in quella che il presidente Obama definisce “la guerra di necessità”. Una guerra infinita che tra 6 giorni, il 7 ottobre, compirà il suo inglorioso 11° anno di morte. Un compleanno di sangue.

I numeri delle statistiche e dei bilanci ufficiali sono probabilmente inferiori alla realtà: oltre ai 2 mila statunitensi, vanno messi nel contro altri 1.190 morti non americani e 20 mila afghani, inclusi i civili. Stando ai think tank di Washington, per il 40 per cento sarebbero vittime di armi non convenzionali, come le terribili “bombe sporche”.

Con un anticipo di qualche giorno sul 30 settembre previsto, sono rientrati negli Stati Uniti i 33 mila soldati che Obama aveva inviato in Afghanistan nel dicembre 2009 con l’idea di chiuderla, questa guerra. Di vincerla. E invece. Sembra quasi che vi sia una congiura o un patto del silenzio tra Barack Obama e lo sfidante repubblicano Mitt Romney nella campagna presidenziale che porterà all’elezione del 6 novembre. Perché anche solo parlare di Afghanistan è perdente e lo stesso Obama che aveva promesso la vittoria, e perciò rafforzato il contingente, si è limitato a dire adesso, al loro rientro: “Abbiamo intaccato la forza dei Talebani”. Molto diverso da quel “distruggeremo i Talebani” che era stata la motivazione del maggiore impegno militare di quasi tre anni fa.

E se Obama, dopo l’uccisione dell’ambasciatore degli Usa in Libia, ha orgogliosamente ma anche retoricamente proclamato che “l’America non si ritirerà dal mondo”, Romney si è lanciato in un ridondante: “L’America deve guidare il mondo libero e il mondo libero deve guidare l’America”. Ma nessuno sa come fare. E c’è un altro elemento inquietante. Il soldato americano numero 2.000 è caduto insieme a un contractor sotto il fuoco “quasi amico” di quegli stessi soldati afghani che le forze della Nato stanno addestrando in vista del completo ritiro americano entro il 2014, scadenza confermata da entrambi i candidati alla presidenza USA. Un addestramento costato solo nel 2012 ben 12 miliardi di dollari.

Oggi, gli americani in Afghanistan sono 68 mila, ai quali si aggiungono i 39 mila della coalizione Isaf (compresi gli italiani). Nel frattempo, le forze di polizia afghane arruolate e addestrate sono raddoppiate in poco tempo fino a quota 350 mila. Ma il fatto che quest’anno siano 52 i soldati americani e britannici caduti nei cosiddetti incidenti green on blue, ossia vittime dei partner afghani (verdi), dimostra quanto sia incerto il futuro.

Rory Stewart, parlamentare conservatore britannico, sul Financial Times ha scritto che stando alla sua testimonianza diretta, il 92 per cento dei militari afghani nella provincia di Helmand non sono neppure in grado di scrivere il proprio nome e a malapena sanno contare fino a 10. In realtà, il 45 per cento degli attacchi dei talebani proviene da 10 distretti meridionali (su un totale di 400 in tutto l’Afghanistan). L’offensiva americana li ha indotti a rintanarsi nei rifugi ma anche a irradiare attacchi terroristici nel Paese. Con il ritiro americano nel 2014, i talebani (che non sono mai stati sconfitti) rialzeranno la testa.  

Gli statunitensi, come i britannici, contano i loro morti ma non ne parlano. Li accolgono in patria con la dignità e la discrezione di potenze militari e nazioni guerriere quali sono. E non si dilungano su quota 1.000 o 2.000. Ma il silenzio dei candidati alla Casa Bianca e dei media americani tradisce anche il dilemma morale di una guerra giusta diventata sbagliata (lo è ogni guerra che non si vince), come sottolinea John Vinocur sull’International Herald Tribune: “Come si giustificano tutti questi morti se l’esito finale è andarsene?”. E ancora il britannico Rory Stewart: “È ora di essere onesti riguardo all’Afghanistan: ci troviamo di fronte a una situazione disperata e a una scelta impossibile”. Quale? Ritirarsi consegnando il Paese al caos e, forse, ai talebani. O rimanere, dopo 11 anni di conflitto irrisolto, senza comunque riuscire a garantire la sicurezza e un futuro agli afghani.

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Marco Ventura

Inviato di guerra e cronista parlamentare de Il Giornale, poi  collaboratore de La Stampa, Epoca, Il Secolo XIX, Radio Radicale, Mediaset e La7, responsabile di uffici stampa istituzionali e autore di  una decina fra saggi e romanzi. L’ultimo  "Hina, questa è la mia vita".  Da "Il Campione e il Bandito" è stata tratta la miniserie con Beppe Fiorello per la Rai vincitrice dell’Oscar Tv 2010 per la migliore  fiction televisiva. Ora è autore di "Virus", trasmissione di Rai 2

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