L'ultimo addio di un grande poliziotto
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L'ultimo addio di un grande poliziotto

Manganelli se n'è andato in silenzio, come in silenzio ha lavorato per ridare dignità a tutte le istituzioni

Che strano. Mi viene da dire che Antonio Manganelli è morto in silenzio. Si muore sempre in silenzio. Ma questo privilegio di morire nella stima e nella gratitudine di tutti, fuori dalle polemiche e dalle chiacchiere, solo in virtù dei meriti accumulati sul lavoro e della stima disseminata nella vita, è un privilegio che spetta a pochi. Soprattutto, a pochi fra i potenti. Muore in silenzio chi ha saputo vivere e lavorare in silenzio, con la passione per il proprio lavoro, l’amore per le istituzioni, l’obbedienza a un’etica rigorosa ma umana della legalità. Il “poliziotto di strada che ha coronato il sogno di ragazzo, fare l’investigatore”, come Manganelli stesso si era definito il giorno del suo primo discorso ufficiale da capo della Polizia il 3 luglio 2007 in un’audizione in Parlamento, ci ha lasciati dopo una lotta di mesi con il tumore e poi un’emorragia cerebrale. La sua figura è un esempio per tutti, specie nel momento in cui l’Italia sembra inabissarsi in un vortice di confusione istituzionale e di valori.

Manganelli era l’uomo delle istituzioni al di sopra delle parti. Non c’è e non ci sarà, alla notizia della sua morte, una sola voce silente o dubbiosa, ma soltanto dolore e sgomento condivisi da tutti: da ogni partito, ogni istituzione, ogni associazione, compresi coloro che in teoria dovrebbero essere più lontani da una visione dello Stato assimilata al pugno di ferro delle forze dell’ordine (la sua nomina a capo della Polizia dopo il G8 di Genova ebbe il via libera di Rifondazione comunista).

Manganelli, irpino di Avellino, muore a 62 anni. Laurea in giurisprudenza e specializzazione in criminologia clinica, già Questore di Palermo e poi di Napoli, via via a capo di tutte le branche più importanti e operative della polizia fino a diventarne capo raccogliendo il testimone dal suo mentore e “fratello” Gianni De Gennaro nel 2007, Manganelli è fautore del concetto di una sicurezza “partecipata”, che non si riduce alla repressione ma ha come interlocutori privilegiati i giovani ed è “cultura diffusa”. Educazione. Non sono solo parole. Manganelli i risultati li ha portati a casa, e risultati formidabili. Lo troviamo nell’86 accanto al primo grande pentito di mafia, Tommaso Buscetta, che comincia a “vuotare il sacco” nell’aula bunker di Palermo. L’anno successivo è ancora lui a raggiungere insieme a Giovanni Falcone in Francia il pentito Antonio Calderone che ha deciso di cantare. Memorabile lo scambio di battute. Calderone gli chiede se è sposato. Manganelli: “No”. Calderone: “Mi ascolti bene, da questa sera lei ha una moglie e tre figli. Si sente in grado di salvarmeli questi tre piccoli e questa donna?”. “Lei non so, loro sì”. È ancora Manganelli che diventato capo della Polizia promette di catturare tutti i grandi latitanti (saranno 50 in 6 anni), cementando un sodalizio col ministro dell’Interno Roberto Maroni che non a caso gli dedica la vittoria al Pirellone. Niente di politico. Solo professionalità e stima personale.

Manganelli è anche il poliziotto “che sa chiedere scusa”. Per farlo bisogna avere carisma tra i propri uomini e la sensibilità umana e politica di prese di posizione non scontate. Succede all’indomani delle sentenze definitive sulla vicenda della Diaz al G8 di Genova. Manganelli non è personalmente coinvolto, lo sono però alcuni tra i suoi collaboratori di una vita. “È il momento delle scuse”, dice semplicemente. “Scuse dovute ai cittadini che hanno subìto danni e anche a quelli che avendo fiducia nella polizia l’hanno vista in difficoltà per qualche comportamento errato ed esigono sempre maggiore professionalità ed efficienza”. È un chiedere scusa anche l’incontro con i genitori di Federico Aldrovandi, il 18enne ucciso durante un controllo di polizia a Ferrara nel 2005.

Con De Gennaro, Manganelli ha arrestato boss come Pietro Vernengo, Piddu Madonia, Nitto Santapaola, Pietro Aglieri. C’è tutto Manganelli in quel che dice del suo lavoro e dei suoi uomini. “Tutti i giorni leggo il mattinale che mi arriva per fax. Vedo le criticità, ma anche le cose belle e i risultati conseguiti sul campo. Il saldo, alla fine, è sempre attivo. Abbiamo costituito una squadra unica e coesa… La Polizia è un’istituzione fatta di persone perbene che lavorano più di quanto sarebbe chiesto loro e producono risultati tutti i giorni, lavorando in sinergia con le altre forze dell’ordine”. Chapeau a quest’uomo che non è mai andato sopra le righe, ha sempre lavorato in silenzio, ha avuto una vita piena di soddisfazioni e all’Italia ha dato tanto. L’unico sogno non coronato e al quale teneva moltissimo era vedere la laurea della figlia ventenne. La malattia lo ha portato via prima. In silenzio.  

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Marco Ventura

Inviato di guerra e cronista parlamentare de Il Giornale, poi  collaboratore de La Stampa, Epoca, Il Secolo XIX, Radio Radicale, Mediaset e La7, responsabile di uffici stampa istituzionali e autore di  una decina fra saggi e romanzi. L’ultimo  "Hina, questa è la mia vita".  Da "Il Campione e il Bandito" è stata tratta la miniserie con Beppe Fiorello per la Rai vincitrice dell’Oscar Tv 2010 per la migliore  fiction televisiva. Ora è autore di "Virus", trasmissione di Rai 2

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