Ma è stato re Giorgio a perdere il suo piccolo Principe
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Ma è stato re Giorgio a perdere il suo piccolo Principe

L'ex presidente della Repubblica Napolitano ha tracciato il solco che ha spinto Renzi nella palude del referendum costituzionale

di Alessandro Giuli

Voto anticipato o no, Matteo Renzi farà parlare ancora di sé. Eppure, adesso che gli è franato sulla testa il muro della superbia eretto nei suoi mille giorni da principe a Palazzo Chigi, adesso che il suo volto stranito e incredulo viene esposto al dileggio degli arcinemici come un faccione di Medusa decollata a favore di telecamere, con le urne del referendum insanguinate dallo sforzo vano dei suoi subalterni, viene da domandarsi: tutta sua la responsabilità? Ovvio che no.

C'è un convitato di pietra da chiamare in causa, in questo frettoloso sforzo di funeralizzare le pose del boyscout capriccioso che ammetteva l'onta della sconfitta e sibilava: vediamo se riuscite a cavarvela senza di me. Il convitato si chiama Giorgio Napolitano, bispresidente emerito di un'Italia strappata dall'orlo della bancarotta e grande architetto di un progetto tecnicamente fallito sul nascere: le "sue" riforme costituzionali. È lui che ha tracciato il solco lungo il quale la carriera renziana ha finito per impaludarsi alla prima vera grandinata elettorale. Chi oggi rimprovera soltanto a Renzi d'essersi intestardito nella riscrittura autarchica della Costituzione, sacrificando priorità e urgenze più alte, dimentica l'essenziale. E cioè che la missione spericolata del giovane premier era stata scolpita, come un prologo in cielo, nello studio quirinalizio dell'allora Capo dello Stato. Fin dal voto del 2013, quando il perdente Pier Luigi Bersani dovette cedere il passo a Enrico Letta e al suo governo di larghe intese, propiziato dal sinedrio dei saggi nominati da Napolitano, apparve chiaro che il palinsesto della legislatura doveva essere questo: salvifico e costituente.

La parabola del mite Letta si rivelò inconcludente, aggravata dall'errore di avallare l'eliminazione per via giudiziaria della controparte governativa berlusconiana. Perché un conto è riscrivere le regole del gioco con il Cavaliere, altro è farsi bastare le controfigure ministeriali raggrumate intorno al progetto di Angelino Alfano. In nome di questa elementare evidenza, nel 2014 maturò l'operazione #enricostaisereno che portò Renzi a Palazzo Chigi e richiamò Silvio Berlusconi nel perimetro della collaborazione politica disegnato dal Patto del Nazareno. Largheggiando in ottimismo, alcuni di noi gridarono al capolavoro di Napolitano, e lui per primo finse di non avvedersi che il rottamatore fiorentino era un talento troppo acerbo per dare forma e coerenza al progetto costituente.

Protetto dall'ombra solenne del supremo Colle, Renzi ha via via gonfiato d'ingordigia la propria naturale autostima: incoraggiato dal successo alle europee della primavera 2014, ha dispiegato a destra e a sinistra, senza misura, il suo cinismo ludico rubricato alla voce "disintermediazione" e scimmiottato con incauta insolenza dai renziani della prima e dell'ultim'ora, la "santa teppa" che voleva precipitarci a calci nel sedere nella sua malintesa versione del futuro (#adesso, ricordate?). Renzi ha finito per militarizzare il Parlamento incassando qualche buon risultato (Jobs act) a margine del tramestio rivolto alla Costituzione e alla legge elettorale. Sul più bello, anzi sul più brutto, quando Napolitano ha visto i suoi obiettivi a portata di mano e si è deciso ad abbandonare il palazzo dei papi e dei re per monumentalizzarsi sul trono minore dei senatori a vita, Renzi e i suoi hanno toccato il culmine dell'arroganza imponendo Sergio Mattarella al Quirinale. Una finta prova d'amore per vellicare la credulità di una minoranza piddina votata comunque all'immolazione, uno sgarbo insanabile a Berlusconi e sopra tutto un caldo rifugiarsi, da parte di Renzi, nella certezza che ormai al Quirinale non gli servisse più un gran tessitore ma un morbido e schivo alleato.

Non che Napolitano si sia eclissato. In omaggio alla volontà d'inverare la sua idea dell'Italia, astratta dalle urgenze sociali e impermeabile alla rabbia popolare e giovanile che andava montando, il presidente emerito ha lastricato il sentiero senza uscita calcato dalla boria presenzialista renziana. Ed era già tardi per farlo rinsavire, quando il premier ha trasformato la competizione referendaria in un'ordalia personale: un duello contro i diritti del suffragio universale negletto. Nientemeno. E così, ottenebrato, il ragazzo è andato a schiantarsi. Napolitano è stato il mandante logico del tentato suicidio politico renziano, la causa efficiente d'una "campagna elettorale aberrante" (parole sue) e della conseguente disfatta che ha imperdonabilmente disarcionato anche i sogni fiabeschi di Maria Elena Boschi, madrina della riforma costituzionale appena finita in coriandoli, offerta al pubblico come una Madonna secchiona e già espunta dal grandangolo scolorito dei fasti renziani.

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