Ma Bersani ha perso la grande occasione
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Ma Bersani ha perso la grande occasione

Adottando per il ballottaggio regole restrittive, che hanno impedito di esprimersi a decine di migliaia di persone, il segretario pd ha avuto paura. E si è rinchiuso nello storico recinto della sinistra. Un errore tattico che potrebbe costargli caro

Bersani ha perso la grande occasione. Poteva, avrebbe potuto senza alcun danno alla sua candidatura e facendoci una figura formidabile, concedere l’apertura ai non iscritti e accettare una trasmigrazione di voti di gente comune che ha votato finora per il centro destra e che avrebbe voluto pienamente sostenere Renzi.

Bersani non rischiava nulla: che avesse venti punti di vantaggio sul rivale toscano lo sapevano tutti i sondaggisti e se avesse aperto all’esterno le primarie del Pd avrebbe avuto una incoronazione popolare ben oltre i limiti della nomenclatura di partito e degli iscritti.

Qualcuno dirà: ma che c’entrano gli esterni, magari i “berlusconiani” con le primarie del Pd? La risposta è semplice: c’entrano come cittadini che avrebbero potuto avere la funzione di indicare democraticamente il futuro candidato premier. Quanto all’entrarci e non entrarci, dobbiamo rifarci alla casa madre che ha inventato le primarie e che ne possiede il brevetto: gli Stati Uniti d’America. In quel grande Paese che ha inventato la democrazia moderna, ogni Stato si fa le proprie regole e anche ogni partito adotta le regole che crede. E di conseguenza in molti Stati, come il Michigan per esempio, è possibile per chi non è iscritto al Partito Democratico (americano) votare insieme agli iscritti.

Ciò comporta anche un certo tasso di migrazioni tattiche – repubblicani che vanno in casa democratica a rafforzare un candidato a scapito di un altro – ma anche i tatticismi sono considerati parte del gioco. L’importante è che la partecipazione sia alta e che i cittadini scelgano.

Ora, che cosa è successo invece in Italia? Due cose: la prima è che la presenza di un candidato “contro”, ha acceso l’incendio e l’attenzione di tutto il Paese si è concentrata su questo evento. Se ricordate, quando furono fatte le primarie che vinse Romano Prodi, si trattò di un plebiscito senza concorrenti. L’affluenza fu maggiore (quattro milioni e mezzo) ma il riscontro mediatico, il clamore, le prime pagine, l’apertura dei telegiornali, furono infinitamente minori. L’evento allora fu vissuto da fuori come un fatto interno ai Democratici di Sinistra, come si chiamava allora il partito derivato dall’antico ma tuttora geneticamente presente, partito comunista.

Stavolta tutto è stato diverso perché c’era un giovane sindaco aperto al nuovo, ma più che altro un rottamatore degli ultimi residui del comunismo. Questo ci sembra il punto. Renzi è il primo dirigente del Partito democratico che non abbia nulla a che fare con il passato comunista, uno che vuole la cultura della produzione, uno che vuole riforme anche impopolari ma necessarie, uno che si è indignato per il fatto che Monti abbia concesso a Bersani il riconoscimento all’Onu della Palestina per pagare pedaggio a Nichi Vendola.

Renzi è stato il lievito, la rottura, la sfida, la famosa discontinuità di cui tutti parlano e infatti è stato sommerso dalle idiotissime accuse di essere un berlusconiano.

Ricordiamo che persone come Rosy Bindi erano contrarie alle primarie e oggi se ne avvantaggiano visto il risultato, ricordiamo che tutta la nomenclatura di partito era riluttante e che se poi alla fine si sono fatte, ciò è accaduto perché intelligentemente Pierluigi Bersani ha visto che avrebbe perso la faccia se non avesse accettato la sfida.

Dopo di che, non la nomenclatura, non gli iscritti soltanto, ma tutto il Paese si è appassionato alla competizione culminata nel confronto diretto all’americana che ha avuto un successo gigantesco. A cose fatte, il PD ha visto le proprie azioni fare un bazo in avanti di parecchi punti, si dice perfino otto punti, anche se poi questo entusiasmo si assesterà probabilmente un po’ più in basso.

Prima che si aprissero le urne per il ballottaggio, Renzi ha chiesto a viva voce l’allargamento della base elettorale per dare ai cittadini italiani tutti la percezione di un voto popolare in cui si sceglie la premiership. Non ha voluto. Benché avesse la vittoria in tasca blindata e sicura, si è rifiutato di aprire i cancelli al voto popolare che non avrebbe certo potuto ribaltare la sua posizione di vincente.

Qual è il risultato di questa grande occasione mancata? Il risultato è che la vittoria di Bersani si è contratta nell’angusto spazio di una vittoria all’interno della vecchia nomenclatura. Bersani è nato come espressione di D’Alema, non è sgradito a Veltroni, è amato dalla Bindi e siamo dunque tornati indietro alla tribù dei capelli bianchi e, salvo la Bindi, della falce e martello. Il PD, che avrebbe potuto affrancarsi una volta e per tutte dal genoma comunista liberandosene per sempre e rinascendo come partito legittimato dal popolo, ha avuto paura ed è tornato nel recinto della sua identità controversa.

Mia madre quando ero bambini, per il pranzo di Natale di molti anni fa preparò una mousse di funghi. Ci lavorò per ore, ma la mousse scricchiolava, c’era della sabbia. Avrebbe dovuto gettarla nel cesso e ricominciare da capo, ma si intestardì a filtrare, aggiungere burro, separare… tutto inutile: scricchiolava. WQuella per me fu una lezione di vita: quando un ingrediente sgradito si sente ancora sotto i denti, la soluzione non è impapocchiare, ma gettare  via. Il genoma comunista ancora scricchiola per quanto burro e per quanta smemoratezza aggiunga Bersani e questo è il risultato di una scelta sbagliata. Avrebbe potuto gettare via  la vecchia identità lasciando ai cittadini di legittimarne una nuova, ma ha avuto paura dell’apparato, dei vecchioni di casa sua, dei padri nobili e della gente con il sopracciglio sollevato e la smorfia del disgusto sul labbro. Che peccato.

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Paolo Guzzanti