L’Ucraina e il tentativo americano di deporre Putin
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L’Ucraina e il tentativo americano di deporre Putin

Con il rublo e il prezzo del petrolio in caduta insieme al peso delle sanzioni, l’economia di Mosca potrebbe vacillare

Per Lookout news

“Che cos’hanno in comune il presidente russo Vladimir Putin, il prezzo del petrolio, e il valore del rublo rispetto al dollaro? Raggiungeranno tutti quota 63 il prossimo anno”. È questa la battuta che va per la maggiore negli ambienti politici e diplomatici russi circa il futuro della Federazione.

 Se lo humor nero è da sempre una caratteristica imprescindibile dei russi (pari solo al loro consumo di vodka), certo è che questa boutade rivela qualcosa di molto più serio sulla situazione in Russia, e illustra bene i crescenti timori moscoviti circa l’andamento dell’economia nazionale nel 2015.

 Il 2014 è stato l’anno in cui Vladimir Putin, il presidente russo duro e puro, ha dovuto fronteggiare una lunga stagione di destabilizzazione e di tentativi d’indebolimento a suo danno.

 Tutto inizia nel dicembre 2013, dopo che il Cremlino aveva definito una strategia energetica condivisa con il presidente ucraino Viktor Yanukovich, che prevedeva l’acquisto di 15 miliardi di dollari del debito ucraino e la riduzione di circa un terzo del prezzo delle forniture del gas. È qui che comincia il caos che è arrivato ai giorni nostri.

 

Da Piazza Maidan a oggi
Furenti proteste erano divampate a Piazza Maidan a Kiev, dove i manifestanti contestavano le scelte del governo ucraino di aderire al piano di Mosca che, a sua volta, tentava d’impedire l’accordo di libero scambio con l’Unione Europea. In breve, i manifestanti hanno esautorato il presidente Yanukovich (che è poi fuggito con disonore), virando la protesta della piazza e il parlamento stesso verso le sirene europeiste.

 Da questa nota vicenda è presto scaturita una vera e propria guerra civile, che ha insanguinato il Paese e lasciato sul campo oltre 3mila morti. Un conflitto che ha diviso l’Est dal resto del Paese, ha visto l’annessione della Crimea alla Russia e che oggi vede sostanzialmente congelata la battaglia sul campo, in attesa che un nuovo corso politico ribalti la situazione.

 Corso politico che, nonostante le elezioni vinte dai pro-europeisti, non potrà avere avvio fino a quando non si risolveranno due questioni capitali: cosa fare con le Repubbliche separatiste nell’Ucraina orientale tuttora in rivolta, e come mettere in sicurezza l’economia nazionale, ad oggi gravemente compromessa.

 Per inciso, se Mosca non avesse acconsentito a inviare in Ucraina le prime forniture di gas dall’interruzione di giugno (notizia di questa mattina, 9 dicembre 2014), i cittadini ucraini avrebbero passato davvero un fine anno incerto e un inizio 2015 ancora peggiore.

 È anche in questo modo che il Cremlino tenta di aggirare l’isolamento nel quale Washington - più che Bruxelles - sta costringendo il Paese da mesi a questa parte. Sullo sfondo, dunque, da parte di Mosca sembrano esserci sia la buona volontà sia il desiderio di trovare una soluzione condivisa per il futuro.

 

Le sanzioni e la strategia USA
Tutto passa quindi per le sanzioni comminate dall’Europa e dagli Stati Uniti a danno di Mosca, e distribuite tra i soggetti vicini all’inner circle del presidente Putin e le numerose società russe che lavorano con l’estero. Tali azioni sanzionatorie sono state pensate e orchestrate a Washington con un preciso obiettivo, teso a creare le condizioni per dare avvio allo scenario a cui la Casa Bianca lavora da tempo: provocare un regime change in Russia. Tutto, a ben vedere, si riduce a questo.

 Vladimir Putin è troppo influente e ha troppo potere nel suo Paese per pensare di defenestrarlo (il suo gradimento viaggia intorno al 70% tra la popolazione, ben più in alto di quello di Barack Obama). Eppure, secondo Washington, è proprio quel che va fatto.

 Gli americani temono molto la corsa a ricomporre in senso modernista quell’ex Unione Sovietica che Putin sogna e che ha più volte dichiarato di voler porre in atto. La rinascita della Russia come superpotenza e l’accresciuto benessere della popolazione è stato innegabile negli anni dell’ascesa al potere di Putin e ancor più lo è stata la scaltrezza diplomatica dimostrata dal governo russo, in ogni focolaio di crisi e in ogni luogo dove si sono scontrati gli interessi di Mosca e Washington. Questo ha messo in pieno allarme l’establishment americano e complicato le aspirazioni dell’allargamento a Est da parte dell’Europa, sostenuta dalla NATO.

 

Il futuro dei rapporti USA-Russia
Il progetto di strappare a Mosca i Paesi dell’ex Unione Sovietica e isolarla dal resto del continente europeo non è nuovo ed è sempre stato ai primi posti della politica estera statunitense in quella regione, soprattutto da quando Putin è riuscito a ricostruire un soft power efficace intorno al suo Paese. Da cui, torniamo di nuovo al caso ucraino.

 Ma non c’è solo questo. L’ascendente del presidente russo è innegabile anche a Teheran, a Damasco, a Beirut, al Cairo e oggi anche a Pechino, Hanoi e in molte altre regioni dove il consenso americano ha conosciuto invece enormi limiti, non tanto economici quanto piuttosto politici.

 Con il rublo in calo vertiginoso, il prezzo del petrolio depresso e il peso delle sanzioni, l’economia di Mosca potrebbe dunque conoscere un rapido declino. Ed è ciò che si augurano gli analisti americani. Ma questi calcoli sono derivati da una politica costruita artatamente allo scopo precipuo di far fallire la Russia di Putin, un nemico evidentemente scomodo per l’America. Se però ciò non dovesse avvenire e l’Europa scegliesse una linea prudenziale (come consiglia il buon senso), per Washington il progetto di regime change si farebbe più complicato e servirebbe un’altra opzione.

 La scorsa settimana la Camera dei Rappresentanti USA ha approvato una risoluzione che autorizza il presidente Barack Obama all’invio palese di armi al governo di Kiev. Anche se serve ancora l’approvazione da parte del Senato, sembra d’intuire che l’escalation del conflitto ucraino resta una delle possibili carte da giocare, in caso le sanzioni non bastassero a eliminare politicamente il coriaceo Vladimir Putin.

 

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Luciano Tirinnanzi