Libia: quali errori sta commettendo l'Italia
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Libia: quali errori sta commettendo l'Italia

L'alleanza con Al Serraj si è rivelato un azzardo. E il generale della Cirenaica Haftar, sostenuto dalla Russia, continua ad avanzare

Per Lookout news

 

Dopo che l’ex premier libico Khalifa Ghwell ha tentato l’ennesimo golpe a Tripoli, occupando le sedi di alcuni ministeri mentre il premier in carica Fayez Al Serraj era in missione all’estero, si ripropone la questione della tenuta del governo della Tripolitania cui l’Italia ha dimostrato la propria amicizia e che, unica tra le grande potenze, continua a sostenere come se quel governo fosse ancora un interlocutore affidabile. Ma Al Serraj non è più in grado di mantenere l’ordine a Tripoli. Così, mentre l’ex capitale libica è ostaggio di gruppi armati, il suo governo è ormai difeso solo dalle milizie islamiste di Misurata, grazie a un matrimonio d’interessi che potrebbe non durare ancora a lungo. Anche perché, della fine delle sanzioni sulle armi promessa dalle Nazioni Unite – e di cui i tripolini hanno estremo bisogno per continuare a mantenere il potere – non si vede ancora l’ombra.

 

Risultato? L’altro governo, quello internazionalmente riconosciuto di Tobruk, guadagna ogni giorno terreno e stringe accordi internazionali grazie alle abili manovre dell’uomo forte della Cirenaica, il generale Khalifa Haftar, che se è ancora non riuscito ad avere la meglio sulle residue forze jihadiste e sui criminali che si muovono lungo il deserto libico, tuttavia ha già ottenuto l’appoggio diretto di Russia ed Egitto e, a quanto pare, anche quello indiretto di Francia e Regno Unito. Haftar può così passare all’incasso, lasciando che la situazione si destabilizzi o, peggio, degeneri in Tripolitania, per poi approfittarne e muovere con le sue truppe alla conquista di Tripoli stessa, intestandosi con ciò il comando generale dell’ex colonia italiana.

 

In tutto questo, Roma, che ha appena riaperto la propria ambasciata a Tripoli (unica tra le potenze internazionali), secondo indiscrezioni avrebbe già evacuato parte del suo personale, considerato che il rischio per i funzionari italiani è troppo alto perché la città “non è sicura”. Tutto questo ci racconta molte cose ma, su tutte, una vale la pena sottolineare: siamo certi che i governo italiano abbia scelto l’alleanza politica destinata a essere dalla parte giusta della storia? Quella cioè che uscirà vincente dal caos generato dal post-Gheddafi?

 

La domanda è tutt’altro che faziosa. Ovviamente, chi ha puntato le proprie fiches su Tripoli e Al Serraj voleva tutelare gli interessi italiani in quella regione, dove l’ENI, presente con uomini e piattaforme, ha continuato a lavorare anche nei momenti più bui della guerra civile. Detto ciò, però, la situazione va mutando molto velocemente e sarebbe opportuno riconoscere che, stante il fatto che l’Ente Nazionale Idrocarburi se l’è cavata benissimo anche senza i balzi in avanti del governo, è tempo di ripensare la strategia complessiva italiana per la Libia. Se mai ve n’è stata una. E, a meno che non si voglia ritenere che la linea del governo italiano sia accettare chiunque s’insedi a Tripoli, forse è opportuno dare un segnale differente dal riaprire un’ambasciata per poi rischiare di vederla chiudere di nuovo.

 

Ma non era già chiaro sin dallo scorso anno che le cose sarebbero andate più o meno così? Noi crediamo di sì. E crediamo anche che l’intelligence, la Farnesina e Palazzo Chigi non potevano non prevederlo. Per questo, riproponiamo parte di un articolo datato 20 maggio 2016, dove la domanda che dava il titolo, rifletteva già una possibile risposta.

 

 

“Libia, l’Italia è dalla parte giusta della storia?”
Non ho tempo da perdere con le Nazioni Unite. Non m’importa niente delle decisioni del Gna (il governo di unità nazionale, ndr), le sue decisioni sono solo pezzi di carta. Non credo che questa soluzione imposta dall’Onu avrà successo”. A parlare è Khalifa Haftar, il generale che comanda le forze armate libiche ed è espressione del parlamento di Tobruk, l’unico sinora riconosciuto dalla comunità internazionale. Haftar non solo non ha intenzione di riconoscere il governo ufficiale appena insediato, ma rappresenta anche la vera mina vagante nel contesto libico, tale che la sua presenza pone un serio problema di legittimità e di riconoscimento politico. E non parliamo di carte bollate, ma di autorità costituita.

Infatti, dopo che l’inviato speciale dell’Onu in Libia, Martin Kobler, ha varato il protocollo di Tunisi e forzato la mano portando alla formazione del Governo di Accordo Nazionale di Faiez Al Serraj, il passo successivo è divenuto il rispetto del protocollo stesso. Il quale prevede che “tutti i poteri delle alte gerarchie militari e di sicurezza siano trasferiti alla presidenza del consiglio”. Ed è proprio qui la radice del problema.Già, perché Serraj, per quanto sostenuto dall’ONU, di fatto non controlla davvero né la capitale né l’amministrazione pubblica, intesa nel suo complesso di funzionari civili e militari.

 

Chi comanda in Tripolitania e Cirenaica
Il suo governo, inoltre, è ancora asserragliato alla base navale di Abu Sittah, segno dell’incertezza e dell’insicurezza che ancora regnano a Tripoli. Di fatto, dunque, la sua autorità politica non si estende al resto del paese. Di certo, non fino alla Cirenaica, dove invece è forte il peso del generale Haftar che, grazie all’esercito a lui fedele, ha occupato militarmente Bengasi e ora controlla l’est della regione, tra cui la stessa Tobruk, dov’è insediato il parlamento libico.

La sicurezza nella capitale è affidata invece alle sole forze di Misurata, una milizia agguerrita che ambisce a farsi esercito e che, dopo l’esperienza all’interno della coalizione Alba Libica – che univa i misuratini ad altre forze islamiste e che ha preso il controllo della capitale con il benestare del Muftì di Tripoli già dall’agosto 2014 – oggi si pone come principale garante dell’ordine pubblico in Tripolitania.

Le alleanze in Libia
Dal punto di vista delle alleanze, sappiamo che Haftar ha il sostegno delle forze francesi, che lo hanno aiutato nella presa di Bengasi e che puntano a un protettorato nell’area; dell’Egitto, che più volte ha contribuito alle operazioni militari di Haftar e che spera in un suo successo, al fine di accrescere l’influenza in Cirenaica; e degli Stati Uniti, dal momento che il generale è una loro creazione (il generale è rientrato in Libia per rovesciare Gheddafi dopo un esilio durato vent’anni in Virginia, dov’è rimasto a stretto contatto con la CIA).

 Serraj, invece, ha l’appoggio generico delle Nazioni Unite, che lo scorso 16 maggio a Vienna hanno ventilato la possibilità di congelare l’embargo sulle armi per rifornire il futuro esercito libico (una sorta di “liberi tutti”); e dell’Italia. Non a caso il 12 aprile scorso, dopo la proclamazione del nuovo governo di unità nazionale, Roma ha inviato a Tripoli il nostro ministro degli Esteri. Paolo Gentiloni è stato così il primo ministro occidentale a far visita al governo Serraj.

 Ora, se le posizioni tra Haftar e Serraj resteranno siderali. Se il premier non troverà una collocazione adeguata al generale in un futuro assetto istituzionale. Se neanche la National Oil Corporation, l’ente libico per il petrolio (oggi diviso tra Tripoli e Bengasi) si unirà in un unico soggetto. Se tutto ciò accadrà, il rischio di un nuovo conflitto interno alla Libia è certo una possibilità. Quando e se si verificherà il caso, dunque, Roma sarà schierata dalla parte giusta della storia?


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Luciano Tirinnanzi