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MAHMUD TURKIA/AFP/Getty Images
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Libia, tra i migranti ammassati nei centri di detenzione

I migranti che non partono più per l'Italia, detenuti in luoghi disumani, chiedono di tornare nei Paesi dove sono fuggiti. Il reportage di Panorama

Pubblicando il reportage di Fausto Biloslavo dalla Libia - uscito il 7 settembre 2017 e qui riproposto -,  Panorama scriveva che si rendeva necessario un appello al governo: si chiedeva una "fase due", subito, per mettere riparo a una vera emergenza umanitaria.

Oggi, alla luce delle informazioni quotidiane che arrivano dalla Libia relative alle violazioni dei diritti umani, il reportage e le parole che lo hanno accompagnato lo scorso settembre risultano ancora più significative e necessarie.
Ecco il commento di Panorama, e, a seguire, il reportage:

Eccellente il risultato di aver praticamente fermato gli sbarchi, ma è evidente che in Libia c'è una bomba umanitaria che se scoppia rischia di travolgerci con una nuova e più grande valanga migratoria. Abbiamo ottenuto dai libici (con promesse economiche e logistiche) di fermare gli sbarchi.
Bene. Lo abbiamo ottenuto dialogando con il governo, trovando finalmente il coraggio di intervenire sulle Ong che facevano da taxi e trattando con i miliziani che organizzavano o permettevano dietro il pagamento di un pizzo le partenze dei barconi.
Ma adesso ci sono centinaia di migliaia di persone ammassate in luoghi che non ci sentiamo di chiamare centri di accoglienza. E non è vero che l'Onu è sul posto a occuparsi di questa nuova emergenza. Noi non abbiamo visto la mobilitazione a cui ha accennato il ministro Minniti. L'impegno del governo dei mesi scorsi deve perfino aumentare organizzando prima di tutto una cosa: il rimpatrio nei Paesi di origine. I libici non hanno i soldi per farlo, i Paesi di origine neppure (alcuni neanche la volontà).

Ma come Biloslavo racconta, molti di questi migranti tenuti come bestie, hanno capito che il corridoio per l'Italia al momento è chiuso, non chiedono altro che di tornare a casa loro. È questo l'impegno prioritario adesso, aspettando che diventino realtà gli investimenti nei Paesi africani: un ponte aereo straordinario pagato dall'Italia e dall'Europa. Non possiamo dire quanto siamo stati bravi e nascondere il migrante sotto il tappeto tripolino. Perché quello è un tappeto che rischia di consumarsi in fretta e male.

Libertà, libertà" gridano in inglese i dannati rinchiusi nel centro di detenzione di Gharyan, 70 chilometri a sud di Tripoli, costruito dagli italiani al tempo del colonnello Gheddafi. Seminudi, in un lezzo di carne umana sotto chiave, i migranti economici provenienti dall'Africa occidentale intercettati dai libici infilano le braccia fra le sbarre dell'ingresso dei capannoni-celle gesticolando per attrarre l'attenzione. "Vogliamo tornare a casa. Viviamo come bestie con cibo scarso e cattivo, pochi vestiti, dormendo per terra" dicono tutti, dal minorenne della Costa d'Avorio ai cristiani giunti dalla Nigeria, ai musulmani del Sudan.

I capannoni dove sopravvivono da mesi sono divisi in cameroni, in un caldo opprimente. Da dietro le sbarre sventolano i fogliettini coni numeri di registrazione delle ambasciate che li hanno riconosciuti come loro cittadini.

Poi la pratica passa all'Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) delle Nazioni Unite, che ha il compito di rimpatriarli. Ma il ritorno a casa è troppo lento e i numeri ancora limitati.

Nel 2017 l'Oim conta su un budget per 10 mila rimpatri e ne ha già effettuati più della metà. Nella ventina di centri di detenzione libici, però, si contano ancora 7 mila persone.

E pochi chilometri a sud, intorno allo snodo del traffico di esseri umani della cittadina di Al Suerf, sono in attesa 16 mila immigrati illegali tenuti come animali dai trafficanti, dopo gli accordi con il governo di Tripoli voluti e finanziati dall'Italia.

Il presidente francese Emmanuel Macron ha parlato di "800 mila migranti ancora nel Paese, in gran parte non rifugiati" che rappresentano "una minaccia reale".

Soprattutto se l'imbuto libico non verrà svuotato in fretta con l'aumento veloce dei rimpatri, e non sarà ripristinata la sorveglianza sulla frontiera meridionale, porta aperta dei migranti che vogliono arrivare in Italia: la fase2 prevista dal ministro dell'Interno Marco Minniti e da Bruxelles dopo la riduzione degli arrivi in agosto di oltre l'80 per cento, ma che deve partire in fretta.

"Non so quante richieste di aiuto abbiamo inviato alla Ue e alle organizzazioni internazionali, ma è arrivato poco o nulla. Il budget a disposizione per i pasti è 1 dollaro e un quarto a migrante. Una miseria. E il fornitore non viene pagato da 14 mesi" denuncia il colonnello Bahlul Shanana, che comanda il centro di Gharyan.

Dai dossier con le deposizioni dei migranti si scopre che solo i bengalesi arrivano in aereo da Dacca via Dubai, Turchia o Sudan fino all'aeroporto Mittiga di Tripoli grazie a finti contratti di lavoro in Libia.

Il costo del viaggio, compreso il barcone per l'Italia,è di6 mila euro. Gli altri, tutti via terra. Nei capannoni-celle di Gharyan i migranti cristiani con l'immagine della Madonna attorno al collo pregano cantando. E ti fanno vedere le bottiglie di plastica tagliate a metà usate come gamelle per immangiabili maccheroni.

Abdoulie Bosang, 20 anni del Gambia, capelli da rasta, racconta una brutta storia. "Quando ci hanno imbarcato su un gommone a Sabrata, uno scafista ha garantito: "Navigate per 3-4 ore e poi una nave delle Ong o militare vi porterà in Italia". In mare il motore si è fermato e 146 migranti sono finiti alla deriva. Un testimone sudanese sullo stesso gommone aggiunge: "I più deboli, quelli che cominciavano a crollare, venivano presi dai nigeriani e gettati fuori bordo ancora vivi. Così alleggerivano il peso sul gommone che stava imbarcando acqua. Pensavo di morire". La guardia costiera libica alla fine ha riportato indietro solo 43 migranti. Sabrata era un hub delle partenze verso l'Italia.

Lo scorso settembre hanno segnalato in zona Ermias Ghermay, trafficante etiope super ricercato nel nostro paese. Da agosto tutto è cambiato con l'accordo fra il grande protettore degli scafisti Ahmed al Dabbashi, soprannominato Al Ammu, lo "zio", il governo di Tripoli e gli italiani.

Le milizie Brigata 48 e Martire Anas Al-Dabbashi (dedicata al cugino morto nella rivolta contro Gheddafi) hanno ricevuto l'ordine di fermarei barconi.

Bashir Lahmoudi, uno dei miliziani in mimetica e kalashnikov al posto di blocco accanto a Mellita, da dove arriva il gas diretto in Sicilia, parla chiaro: "Difendiamo l'impianto italiano (dell'Eni ndr). Abbiamo combattuto lo Stato islamico a Sabrata e ora fermiamo i migranti".

Nelle vicinanze un'ex base della milizia è stata ristrutturata con alti reticolati per trasformarla in centro di detenzione dei migranti fermati a Sabrata.

Una fonte che fa parte del potere locale spiega a Panorama l'accordo: "È semplice: se le milizie ordinano agli scafisti di non partire, quelli fermano i gommoni. Se arrivano aiuti e soldi dal governo di Tripoli grazie all'Italia, o direttamente dal vostro paese e dall'Europa, per i progetti economici, l'accordo regge. Altrimenti riprendono le partenze".

Il 19 agosto sulla pagina Facebook della milizia Al Dabbashi è apparso l'annuncio del coordinamento con l'ambasciata a Tripoli della prima di tre consegne di materiale sanitario all'ospedale di Sabrata da parte del nostro governo.

Italia ed Europa investiranno 200 milioni di euro in 14 municipalità della Libia, compresa Sabrata, per progetti triennali proposti dai sindaci.

GLI HANGAR DOVE SI AMMASSANO GLI ESSERI UMANI

La fase di tamponamento dei migranti non basterà però se non si interviene nell'entroterra.

A Bani Walid, 170 chilometri a sud di Tripoli, sono ammassati in enormi hangar migliaia di persone giunte da Sebha e Kufra,i punti d'ingresso nel deserto meridionale. "I camion scaricano esseri umani come se fossero merce" racconta una fonte. E i trafficanti sono sempre più spietati.

"Di recente hanno preso nel mucchio due uomini e una donna, che avevano finito i soldi, cospargendoli di benzina: sono bruciati vivi, come esempio per gli altri".

Uno dei progetti della seconda fase, che dovrebbe essere finanziato dall'Europa, è la sorveglianza elettronica dell'inesistente frontiera sud della Libia. Nel 2010 Finmeccanica aveva consegnato a Gheddafi un sistema di radar, sensori a infrarossi e telecamere di 300 milioni di euro, in parte già pagati, che avrebbe dovuto intercettare il flusso di migranti dal confine meridionale.

Poi tutto è saltato per la rivolta contro il colonnello. Senza il blocco del fronte sud le partenze continueranno, come sta già avvenendo, anche se in maniera limitata. Da Tajura, vicino a Tripoli e Garabulli, 66 chilometri a est, continuano a imbarcare migranti sui barconi. I prezzi sempre più scontati della traversata ormai variano da un massimo di 1.700 euroa un minimo di 400. Nel centro di detenzione di Triq alSiqqa, il più grande della capitale, simile a un girone dantesco, sono rinchiusi un migliaio di migranti. Gli ultimi arrivi,a fine agosto, erano stati intercettati dalla guardia costiera al largo della Libia.

Jabel Collins, 28 anni del Ghana, ancora sporco di sabbia e acqua salmastra, è accovacciato a terra assieme a un centinaio di migranti appena arrestati. Racconta: "I trafficanti all'imbarco ci avevano assicurato che le navi italiane sarebbero venute a prenderci".

Gwase, una bella ragazza di 25 anni arrivata dal Gambia, spiega con lo sguardo triste: "Mi hanno detto che in Italia ci sono tanti privilegi per i rifugiati. Ti danno da mangiare, vestiti, protezione. Per questo sono partita". Il maggiore Abdulnasser Hazam, responsabile del centro, si scaglia "contro le visite inutili di ministri e diplomatici di tutti i Paesi europei, compresa l'Italia. Vengono, vedono e promettono mari e monti. Poi non arriva nulla. La Ue ci aiuta solo per il 10 per cento delle necessità fondamentali". Alcuni migranti sono in attesa di rimpatrio da un anno e mezzo, stanno in un gabbione.

E c'è anche il problema dei marocchini: "Ufficiali dell'intelligence dell'ambasciata mi hanno detto che devono fare controlli minuziosi" dice l'ufficiale del ministero dell'Interno libico. "Numerosi loro connazionali combattevano a Sirte con lo Stato islamico e adesso vogliono infiltrarsi in Europa in mezzo ai migranti".

In un solo invivibile stanzone sono ammassate centinaia di persone che dormono per terra in mezzo ai ratti, con un odore soffocante. Mohammed Adam Yakob, 18 anni, sudanese, lancia un messaggio ai giovani come lui: "Voglio tornare a casa. Certo, prima o poi riproverò a partire, ma non dalla Libia. Qui ormai è un inferno".

[Questo articolo è stato pubblicato sul numero 38/2017 di Panorama, con il titolo. "Polveriera libica"]

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Fausto Biloslavo