Soldati peshmerga
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Libia e Iraq: siamo pronti ad andare sino in fondo?

Ai soldati italiani toccherà il presidio tra il Kurdistan e Ninive. In Libia i nostri soldati saranno in prima linea a fare il “lavoro sporco”

Per Lookout news

Adesso è ufficiale. Dopo la conferenza internazionale anti-ISIS andata in scena alla Farnesina, le voci convergono sulle indiscrezioni delle ultime settimane. L’Italia manderà i propri soldati su almeno due fronti della guerra allo Stato Islamico. Circa 130 soldati giungeranno a Erbil, in Iraq, sul fronte nord del conflitto. A questi presto seguiranno altri 450 da schierare a protezione della diga di Mosul, dove la ditta italiana Trevi si è aggiudicata il contratto per la riparazione dell’infrastruttura, come confermato dal governo di Baghdad (anche se la firma ufficiale ancora manca). In totale, in Iraq saranno oltre mille i nostri soldati, per svolgere soprattutto operazioni di recupero e di presidio. Andranno nella bocca del leone, ma almeno avranno funzione difensiva.

Il secondo fronte, quello libico, ci vedrà invece in funzione puramente offensiva e sarà aperto non appena vedrà la luce il governo di unità nazionale. Cosa non facile, ma che presto o tardi si dovrà concretizzare. Se non altro per permettere alla coalizione internazionale di intervenire militarmente: gli uomini del Califfo sono infatti penetrati a Sirte e minacciano i terminal petroliferi di Sidra e Ras Lanuf. Cosa che pare inaccettabile agli occhi dell’Occidente. In questo caso, all’Italia toccherà prendere parte a missioni aeree e incursioni di terra, oltre a proteggere - anche qui - le infrastrutture e addestrare il personale militare e di polizia. Tutto troppo semplice, tutto troppo fumoso.


Il “lavoro sporco” in Libia
Il governo Renzi sinora aveva tenuto una linea intelligentemente non interventista e aveva fatto delle precedenti operazioni militari internazionali, così come della prudenza e coerenza, i propri punti di forza. Ma lo sfiancante pressing americano ci ha infine portato al punto di non potergli più resistere. E così, eccoci catapultati in questa nuova fase, dove pare proprio che alle nostre truppe toccherà fare il “lavoro sporco”, per risolvere ciò che gli altri paesi - compresa la Libia - non hanno saputo fare: estirpare lo Stato Islamico dal Mediterraneo.

Già, perché secondo le notizie che sono trapelate dal summit romano, il Segretario di Stato Usa John Kerry avrebbe ritagliato per noi una parte da protagonisti, insieme al Regno Unito, nel coordinamento delle operazioni militari in Libia. Operazioni di terra e di aria che, tuttavia - ed è questa la parte sconcertante - sarebbero dirette nientemeno che da ufficiali libici. Gli USA, invece, forniranno semplicemente l’intelligence e la copertura aerea con i droni e i satelliti.

Ora, se si può dubitare di queste informazioni, citate anche dal quotidiano La Stampa (e speriamo che la storia ci smentisca), non è però possibile non preoccuparsi quando si apprende che, secondo il Pentagono, quegli stessi militari che non sono riusciti a cavare un ragno dal buco nella guerra civile e che hanno perso importanti battaglie, lasciando proliferare lo Stato Islamico e numerose altre fazioni di jihadisti, dovrebbero gestire l’intervento occidentale in terra libica. E come? Da quale centro di comando? Secondo quale esperienza?

Possiamo solo supporre che tali generali libici siano gli stessi che oggi rispondono al generale Haftar e, più in generale, al governo di Tobruk, seppure presto vestiranno le nuove divise del governo di unità nazionale. Ciò nonostante, non appaiono né giganti né strateghi tali da potergli affidare il coordinamento di cacciabombardieri, droni, unità speciali e, soprattutto, vite umane.

Forse, questa è solo una scusa formale per aggirare (o raggirare) le regole d’ingaggio e lasciare invece che Italia, Regno Unito, USA, Francia e Germania gestiscano come meglio credono l’intervento. Eppure, tutto suona così terrificante che potrebbe essere anche vero.


Le prospettive dell’intervento
Viste le capacità d’analisi dell’Amministrazione Obama e l’abilità di muoversi nei teatri di guerra - come scordare l’intervento del 2011 contro Muammar Gheddafi? - si ha ragione di temere che davvero qualcuno ai vertici politici abbia pensato di poter esporre nuovamente a un simile scenario i suddetti paesi della coalizione internazionale.

Insomma, chi ci voleva trascinare in guerra (non ultimi gli stessi miliziani dello Stato Islamico), ci sta riuscendo. Dopo la strage di Nassiriya in Iraq - dove nel 2003 rimasero uccisi 12 carabinieri, 5 militari dell'esercito, 2 componenti di una troupe che stava lavorando a un film e 9 iracheni - l’opinione pubblica e il mondo politico italiano dissero compatti: “Mai più Nassiriya”. Ma la guerra è anche questo e non si può pensare di intervenire militarmente senza ritorsioni e senza vittime.

Non è questa la sede per giudicare il prossimo intervento militare in Libia e Iraq - doveroso secondo alcuni, inutile secondo altri. Al momento, possiamo solo preoccuparci di avere le precondizioni necessarie affinché le operazioni belliche non rappresentino un Vietnam per i nostri soldati. E questo può dircelo solo l’intelligence militare, per bocca del Ministero della Difesa.

Quel che preme qui sottolineare sono le inevitabili conseguenze che un simile intervento provocherà. Soprattutto se consideriamo che in pochi ci vogliono davvero in quei territori, che potremmo essere considerati solo alla stregua di “invasori” e che, forse, questa non è neanche la nostra guerra. E, se davvero vogliamo andare sino in fondo, siamo sicuri che poi sapremo farci carico delle conseguenze?

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Luciano Tirinnanzi