Giornalisti in carcere: 100 giorni per cambiare la legge
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Giornalisti in carcere: 100 giorni per cambiare la legge

Dopo la condanna a Panorama il direttore, Giorgio Mulé, lancia la sfida ai politici - Panorama in carcere: tutte le carte -

I fatti li conoscete per averli letti sui giornali o sentiti in televisione. Ve li riassumo.

Palermo, 2009: Panorama indaga sulla gestione della Procura di Palermo. Il procuratore capo, Francesco Messineo, si sente diffamato e querela. A Panorama non si contesta di aver raccontato fatti falsi o di aver ingannato i lettori distorcendo la verità: no, la contestazione è quella di aver «offeso gravemente la dignità personale e professionale» di Messineo. Non con fatti falsi, ripeto e sottolineo. Come si può leggere nel capo di imputazione, che ripropongo letteralmente (e nel farlo mi scuso per la sintassi), la lesione della dignità di Messineo sarebbe consistita nell’averlo indicato «come “privo di carisma”, dirigente della Procura di Palermo solo formalmente e “tanto in ombra” come “Procuratore a termine”, a cui si contrappone “un Procuratore ombra, che è il vero capo”, “discusso Messineo” e così via, il tutto con un riferimento insinuante a vicende familiari della parte offesa». Fine.

Oggi, quattro anni dopo, un giudice di Milano ha condannato me per «omesso controllo» nella veste di direttore di Panorama a otto mesi di carcere senza il beneficio della sospensione condizionale, il giornalista Andrea Marcenaro a 12 mesi senza il beneficio della condizionale, il nostro collaboratore Riccardo Arena a 12 mesi con la sospensione della pena. Più un indennizzo di 50 mila euro. Non starò qui a rifare la storia del processo, a soffermarmi su quelle che mi appaiono non solo delle enormità ma delle mostruosità giuridiche. Ognuno può, se crede, formarsi autonomamente un giudizio leggendo tutti gli atti del processo sul sito www.panorama.it .

Ciò che a me interessa è un altro tema: alcuni giornalisti di Panorama sono stati condannati a pagare con il carcere la loro libertà di critica. Non è la prima volta che accade. Nel 2000, cioè 13 anni fa, una tempesta giudiziaria si abbatté sulla nostra redazione: altre condanne, altro carcere. Il direttore dell’epoca Nini Briglia (che è stato fra i miei maestri) decise di inviare una lettera ai presidenti di Camera e Senato e a tutti i parlamentari. La faccio mia dalla prima all’ultima riga, ve la ripropongo integralmente e, nel decidere di farlo, non vi nascondo di essere parecchio imbarazzato. Perché 13 anni dopo non è cambiato nulla, assolutamente nulla.

«Signori presidenti, Signori parlamentari della Repubblica, Panorama ritiene giusto e opportuno rivolgersi alla massima espressione della democrazia, da voi rappresentata, perché possa liberamente essere discusso, nelle forme che riterrete, un argomento di particolare importanza per la libera informazione, per il prestigio della giustizia e per il valore decisivo che la moderna convivenza civile consegna all’equilibrio tra i poteri.

Soltanto nell’ultima settimana, il 18 e il 25 luglio, due diverse sezioni monocratiche del Tribunale penale di Milano hanno condannato Andrea Marcenaro, inviato di Panorama, a otto mesi di reclusione una prima volta e ad altri otto mesi una seconda. Giuliano Ferrara, ex direttore del giornale, a sette mesi di reclusione nel primo procedimento e Roberto Briglia, attuale direttore, a cinque mesi di carcere nel secondo. Negli stessi due giudizi sono state stabilite provvisionali di oltre 700 milioni (di lire, ndr) la prima volta, e di altri 100 la seconda, a vantaggio dei querelanti.

In entrambe le occasioni i querelanti erano magistrati della Procura della Repubblica di Palermo. In entrambi i procedimenti, conclusi in tempi assai più brevi del consueto, i giudici di Milano hanno dato piena ragione e piena soddisfazione ai propri colleghi di Palermo sentenziando come diffamatori due articoli scritti da Marcenaro nel 1997 e pubblicati nella successiva responsabilità dei direttori Ferrara e Briglia. Non è questione che riguardi soltanto Panorama, il contenzioso che oppone nelle aule dei tribunali giornali e magistrati è ampio. Pericolosamente ampio.

Più volte è stata sottolineata, anche da autorevoli esponenti del Parlamento, la necessità di analisi, riflessione e proposte di soluzione. Poco si è fatto finora. Non pretendiamo, noi di Panorama, né lo fanno i nostri colleghi, di essere sempre depositari di verità inconfutabili. Siamo certi di incorrere in errori. Abbiamo consapevolezza degli intrecci difficili e contraddittori tra diritto di critica e rispetto dell’onorabilità dell’individuo, tra cronaca e opinione, tra necessità di tutelare le fonti e responsabilità personale dei giornalisti di fronte alla legge. Affrontiamo materia delicatissima e controversa, delimitata da confini labili e sottili. Proprio per questo c’è bisogno dell’attenzione più profonda che può venire solo dalla riflessione e dal confronto ai più alti livelli e non da sentenze nelle quali il giudizio è inevitabilmente affidato a chi è, o può sentirsi, parte in causa. Perché, Signori presidenti e Signori parlamentari, il rapporto tra potere giudiziario e diritto all’informazione non può essere risolto a colpi di querele. E di condanne pretese e ottenute per di più all’ombra del sospetto di una colleganza e di un interesse corporativo. Si alimenta così, nei fatti, il sospetto di una solidarietà di appartenenza, di una mutua autodifesa dei magistrati contro la facoltà di controllo della pubblica opinione o di una sua parte.

Ci chiediamo se sia accettabile che personaggi pubblici detentori di un potere molto forte debbano disporre del diritto inconsueto di reagire alla critica e al dissenso sulla gestione del loro potere in modo inusitato, forse avvantaggiato, e a tutta evidenza devastante. Querelando ogni biasimo. Rivendicando a sé decine e centinaia di milioni per ogni dubbio stampato sulla propria ufficialità intoccabile. Privatizzando come nessun altro i doveri del proprio pubblico ruolo e la trasparenza anche delle responsabilità ufficiose di fronte alla pubblica opinione. E affidando, sempre e comunque, il giudizio sul proprio operato a quello di un collega. Panorama, sia chiaro, non chiede affatto una solidarietà a sua volta inaccettabile a tutela della casta dei giornalisti contro quella dei magistrati. La sola idea di un’impunità e dell’irresponsabilità di ciò che si scrive sarebbe spudorata. Proponiamo soltanto, in modo trasparente, che un tema di rilevanza collettiva, una questione di democrazia formale e sostanziale trovi soluzioni. Fuori dalle aule dei tribunali».

A questa lettera io ho poco o nulla da aggiungere. A differenza dei colleghi direttori che mi hanno preceduto dovrei andare in carcere, se la condanna fosse confermata in secondo grado e poi in Cassazione, non essendomi stato concesso il beneficio della sospensione della pena. Se rinunciassi a presentare Appello, per esempio, ci sarebbe l’esecuzione immediata della pena. Se fosse così, avverrebbe dopo un paio di settimane dal deposito delle motivazioni del verdetto che mi riguarda (il giudice ha fissato in 90 giorni il periodo necessario per scriverle). Mal contati sono poco più di 100 giorni. Si pensi allora che la detenzione di un giornalista per un reato di opinione non è un fatto remoto, ma una concreta possibilità.

Con l’eccezione dei rappresentanti del Movimento 5 stelle e di Sel di Nichi Vendola i parlamentari di tutti gli altri partiti hanno espresso solidarietà a Panorama (e di ciò li ringrazio dal profondo del cuore) unita alla necessità di riformare la legge. Bene: ci sono più di tre mesi di tempo affinché questa maggioranza trasversale dia un segnale concreto per porre fine a questa vergogna tutta e solo italiana. Si metta mano alla normativa sulla diffamazione giacché, da destra a sinistra, sono tutti d’accordo sul principio che non può essere comminato il carcere per reati di opinione. Nei prossimi 100 giorni questo Paese potrà compiere un grande balzo verso la civiltà. Vediamo se stavolta ne sarà capace.

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Giorgio Mulè