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ANSA/ GIUSEPPE LAMI
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Scuola: posto fisso e riforma fessa

Se continuerà a essere impostata sulla linea della "deportazione», la battaglia degli insegnanti sarà di retrovia e antistorica

Cominciamo da una considerazione semantica. Se un’insegnante, o addirittura una moltitudine di loro, ricorre alla parola «deportazione» per spiegare che deve lasciare il suo attuale luogo di residenza allo scopo di avere la possibilità di ottenere un posto fisso, dice una grande fesseria e opera una enorme mistificazione.

Senza scomodare le tragedie della storia moderna e contemporanea, tutti sappiamo che la parola «deportazione» va usata con rispetto e pudore perché riguarda chi, privato di diritti civili e politici, è costretto con la forza ad allontanarsi dalla città in cui vive spesso per un viaggio senza ritorno.

Eppure i toni di chi protesta ruotano attorno a questo concetto ma, così facendo, ci si pone sulla soglia della disinformazione.

Chiariamo subito un altro punto. È assai criticabile la riforma della scuola e il meccanismo scelto per le assunzioni: si tratta di una modalità pasticciata e per molti versi incomprensibile proprio perché sfugge la ratio a monte sui criteri di destinazione degli insegnanti.

Ma si tratta di un papocchio giunto dopo decenni di clientelismo precario, di uno storico e antico clientelismo istituzionale che soprattutto al Sud voleva garantito il posto fisso sotto casa.

Siamo onesti: non bastava avere il posto fisso, ma era dovuto che fosse nello stesso quartiere e possibilmente senza neppure la necessità di uno spostamento in auto o con i mezzi pubblici. I carrozzoni della pubblica amministrazione e gli stipendifici parassitari pagati dallo Stato o dalle Regioni hanno plasmato una generazione che oggi, a 40 o 50 anni, rifiuta alla radice l’idea di andare dove li porta il lavoro.

È un problema culturale, che risiede nella specificità della condizione di dipendente pubblico con il corollario che descrivevamo prima: posto fisso sotto casa e garantito a vita.

È normale quindi che alle proteste veementi (ripeto e sottolineo: non infondate) dei precari rispondano basiti lavoratori di tutte le età che hanno inseguito e seguito il lavoro a ogni latitudine italiana o estera.

Sono operai e professionisti che hanno lasciato casa e affetti, sradicato la famiglia anche più di una volta per imboccare la strada di un impiego spesso con stipendi che, a parità di importo, non garantivano qualità di vita e benessere goduta nei paesi di origine.

Sono forse lavoratori di serie B?

Non lo sono affatto, molti di loro hanno sudato per raggiungere professionalità uguali o anche superiori a quelle degli insegnanti. Per questo, se continuerà a essere impostata sulla linea della «deportazione», la battaglia degli insegnanti apparirà una battaglia di retrovia e antistorica. E sarà una guerra persa in partenza.

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Giorgio Mulè